Io, italiano in Giappone, travolto da uno psicotsunami

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    Articolo tratto da "Il Venerdì di Repubblica" n. 1201 del 25/03/11:

    IO, ITALIANO IN GIAPPONE, TRAVOLTO DA UNO PSICOTSUNAMI
    Un giornalista che vive a Tokyo da decenni racconta le emozioni, per noi incomprensibili, con cui un popolo sta reagendo a un'immane tragedia. Arrivando a rifiutare una possibile salvezza, per non doversi vergognare.
    di Silvio Piersanti

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    Il 125° Imperatore del Giappone, Akihito, durante la rituale apparizione in Tv, il 16 marzo, per incoraggiare il popolo a reagire.


    Kyoko, 35 anni, ha un bel negozio ad Asagaya, quartiere centrale di Tokyo. Buon'Italia, dondola l'insegna nel vento che già porta l'aria assassina di Fukushima, duecento chilometri a nordest della capitale. Nel negozio Kyoko vende con crescente successo, da dieci anni, olio extravergine d'oliva, miele abruzzese, alici siciliane e pochi altri prodotti italiani da lei severamente selezionati. Serve con grazia le sue clienti - in buona parte danarose obaasan (mature casalinghe), alle quali ha fatto conoscere il miracolo dell'olio d'oliva. Due o tre volte al mese tiene affollate lezioni di cucina italiana per spiegare il corretto uso dell'olio nei piatti tradizionali italiani, pubblica libri di cucina italiana (anche uno in italiano sulla cucina giapponese, per Hoepli), viene intervistata da televisioni e giornali.

    Ha un figlio di dieci anni, Tomoyuki. E' sposata con un italiano che, in dodici anni di matrimonio, le è parso sempre più alieno, indecifrabile, irrecuperabile. Sfortunatamente, è esattamente quello che il marito prova nei confronti di sua moglie. Lo posso affermare con assoluta certezza perchè quel marito sono io.

    E Tomo è nostro figlio. Essere padre di un ragazzino di dieci anni all'età di 75 è un salto mortale. Averlo da una moglie quarant'anni più giovane è una tripla piroetta senza rete, altamente sconsigliata (anche a me, che dovrei essere ben allenato, saltando da anni come una cavalletta da Roma a Tokyo e viceversa). Ma averlo adesso, mentre una tragedia immane dilania il Giappone, è ancora peggio.

    Sono ormai quattro mesi che Kyoko e io siamo separati in quella che appare una pausa a tempo indeterminato. Una separazione vasta: lei e Tomo a Tokyo, con i suoi 28 milioni di abitanti, io nel mio villaggio umbro di Castel dell'Aquila, con le sue 49 anime.

    Il frutto più amaro di questa separazione è stato la perdita della grande occasione della mia vita di padre tardivo: il Giappone esplode davanti agli occhi esterrefatti, ma asciutti, di mio figlio («Papà, io non ho pianto, come è successo a molti dei miei compagni di classe» mi dice su Skype) e io non sono lì al suo fianco per sopravvivere, resistere, ricostruire, riemergere insieme, vincitori, dalle paludi del male. Poi, sarei stato pronto per l'ultimo congedo, dopo una lunga e complicata esistenza. Mi sarebbe stato facile dirgli addio con un sorriso. Ma il passato non lo può modificare neanche l'Onnipotente: lui c'era, io no. Ogni volta che da grande leggerà sui libri (se ci saranno ancora) pagine epiche su questo cataclisma da cui il Paese del Sol Levante riemergerà ancora più unito, ancora più forte, ancora più fiero, lui penserà con giusto orgoglio: io c'ero.

    Venerdì 11 marzo, Tomoyuki Asada Piersanti - due lingue, due passaporti, due padri, uno naturale e uno «vero» (sua madre Kyoko), valido battitore della squadra di baseball, roccioso difensore centrale della squadra di calcio, virtuoso di tutti i Nintendo del mondo, accanito collezionista di cards, era uno dei trenta scolari della quinta elementare Mabashi, impegnati nella lezione settimanale di informatica. Alle 14.46, l'inferno. Il computer su cui si stava esercitando salta per aria e rotola sul pavimento, mentre l'aula si trasforma in una gabbia con pareti, soffitto e pavimenti pulsanti in cui un invisibile mostro immane si dibatte, sferrando alla cieca colpi furiosi.

    Jishin (terremoto), grida la maestra, e tutti sanno cosa debbono fare: lei stacca i contatti elettrici, gli allievi, maschi e femmine, estraggono il grande copricapo ignifugo e imbottito dallo schienale delle loro sedie, lo indossano in modo che copra anche le spalle, si infilano ciascuno sotto il proprio banco e aspettano.

    Non pregano. La religione non è materia di insegnamento scolastico in Giappone. Sono stati educati a non aspettarsi miracoli ma a farli, eventualmente. E hanno dimostrato diverse volte nella loro storia di saperli fare. Nonostante le scosse continuino con forza, sono tutti in fila nel campo da gioco della scuola, un'esercitazione fatta tante volte. La furia del mostro sotterraneo non si placa. In quel campo, dove i bambini sino a un'ora prima si inseguivano gridando felici, ora faticano a restare in piedi. Faticano a credere ai loro occhi. Tutt'intorno pali della luce carichi di cavi, alti alberi secolari e le facciate dei palazzi eleganti con vista sul parco Mabashi ondeggiano e sussultano in un sabba apocalittico. Sei minuti, che sembravano dover essere gli ultimi prima della fine del mondo. Era il Dai Jishin (il grande terremoto): era l'inizio del più terrificante cataclisma della storia del Giappone.

    Quel venerdì Kyoko era nel suo negozio con Yamada-san, una giovane donna sua collaboratrice. Stavano impilando bottiglie d'olio negli scaffali che ricoprono l'intera parte di legno, come una grande libreria. All'improvviso le snelle bottiglie a forma d'anfora si trasformano in sguscianti anguille: impossibile afferrarle, tenerle ferme. Cominciano a cadere a dozzine, seguite da centinaia di barattoli di miele. Kyoko e Yamada-san si guardano e non hanno bisogno di parole. Si lanciano verso gli interruttori generali della luce e del gas, staccano ogni contatto e si accucciano sotto il tavolo mentre attorno a loro la gragnuola di bottiglie e vasi continua sempre più intensa e il pavimento sussulta sotto una lava di frammenti di vetro, miele e olio che dilaga ovunque.

    «Mi sembrava di stare su una nave in tempesta» racconta Kyoko «Vedevo gente sfrecciare davanti alla grande porta di vetro del negozio, proteggendosi in qualche modo la testa dalle tegole che cadevano dai tetti. Non pensavo che una scossa di terremoto potesse essere così lunga e violenta. Ma non ho avuto paura di morire: ero concentrata su quello che dovevo fare. Tomo era a scuola ed ero relativamente tranquilla per lui. Il cellulare funzionava: l'ho chiamato, stava bene, era calmo. Il grande evento cui da anni si preparava era arrivato e lui pensava di averlo saputo fronteggiare con dignità. Ero fiera di lui. Era in un gruppo che la sensei (l'insegnante) stava accompagnando sino ad un incrocio concordato, da cui ogni bambino avrebbe proseguito da solo verso la propria casa. Le scosse continuavano ma il dramma incombente non ha impedito alla sensei di rimproverare Tomo per aver portato in classe il cellulare. Poi ho chiamato mia madre e, saputo che stava bene e che la sua nuova casa di legno, costruita secondo le più recenti regole antisismiche, aveva superato perfettamente il test verità, le ho chiesto di andare ad accogliere Tomo a casa nostra, dove stava andando a piedi da solo come, del resto, fanno tutti i bambini a partire dalla prima elementare.
    «Infine ho chiamato mio marito in Italia: non sapeva ancora nulla. Vuole venire subito, vuole stare vicino al figlio. Come sempre, non è facile farmi capire. Questa emergenza non indebolisce le ragioni che sono alla base della nostra separazione: le rinforza. Tu qui adesso saresti un problema in più. Ci sarà poco cibo, poca acqua, poca elettricità. Il tuo eventuale aiuto manuale non compenserebbe i problemi causati dalla tua presenza, dalla fragilità della tua salute. L'assistenza che ci daresti sarebbe inferiore a quella che richiederesti.»


    Poi Kyoko si calma. E riprende a raccontare. «Mi rimbocco le maniche e comincio a spingere fuori del negozio la melma che copre il pavimento. Poi metterò tutto in grandi sacchi di plastica che il Comune provvederà a ritirare entro poche ore. L'jndomani mattina Buon'Italia è aperta. Sono sfinita, ma sento la profonda soddisfazione di aver fatto tutto quello che era necessario per me, per la mia famiglia, per il mio lavoro, per il mio Paese. Se ognuno di noi farà la sua piccola parte, riemergeremo anche questa volta.
    «Quando comincia a concretizzarsi la minaccia delle radiazioni nucleari, mio marito mi richiama: chiudi il negozio e venite subito in Umbria. Esplodo. Non hai capito nulla. Continui a vedere tutto con la sua ottica occidentale, da colonizzatore etico. Per millenni avete deciso voi il giusto e lo sbagliato, il bello ed il brutto, il vero e il falso, gli dei da adorare e quelli da bruciare. Ma non vi accorgete che l'Oriente non è più la vostra colonia intellettuale? Noi orientali abbiamo cominciato a pensare un millennio prima di voi. Abbiamo sviluppato sistemi filosofici, matematici, fisici, astronomici cui vi siete abbeverati. Ma continuate a voler imporre la vostra visione, ignorando la nostra.
    «Per questo non capisci che il tuo invito a mollare tutto e scappare in Italia suona grossolano alle mie orecchie, calpesta il mio onore e mi conferma che tu ed io siamo separati da molto più di diecimila chilometri: noi due viviamo in due pianeti diversi.
    «Se vado via adesso non avrò più il coraggio di tornare e di guardare negli occhi la mia gente. Come è possibile per te concepire l'idea che io adesso lasci il mio popolo a sgobbare e a rischiare anche la vita, mentre io mi godo la primavera umbra? Con che faccia potrei mai tornare? E' così che avresti fatto tu? Mi fai vergognare di averti come marito. Certo, c'è il tremendo pericolo della radiazioni nucleari. Cinquanta tecnici si stanno suicidando lavorando come volontari all'interno del reattore nel tentativo di evitare la catastrofe nucleare. E io dovrei correre all'aeroporto con mio figlio, volare a Roma e gettarmi nelle tue braccia? Cosa penserebbe Tomo di me e di se stesso? Che siamo fuggiti in Italia, lasciandoci alle spalle nonni, zii, amici, collaboratrici e l'intero nostro Paese a vedersela con le conseguenze di un disastro senza precedenti. Una pessima lezione, invero. Una lezione che non gli darò mai. Costi quel che costi.»


    La lezione l'ho avuta io. Uno psicotsunami mi ha devastato il cuore. Ancora una volta ho infranto una legge dell'Atarimae, l'insieme delle regole di comportamento così ovvie che non c'è bisogno di scriverle. Se non si domina l'Atarimae non ci si potrà mai inoltrare nel labirinto dell'animo giapponese senza sbatterci la faccia: come è successo a me.

    SILVIO PIERSANTI
    (c) Copyright La Repubblica - Tutti i diritti riservati
    Riproduzione riservata


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    Bellissimo articolo. Una confessione amara per il giornalista, della propria diversità di cultura e pensiero con la moglie.

    Ma anche uno spaccato di cultura e pensiero giapponese che lascia basiti. Il senso dell'onore, del non abbandonare il proprio Paese ma al contrario combattere assieme ai propri connazionali per esso, per risollevarsi tutti insieme da quest'immane catastrofe che li ha colpiti. La fuga al sicuro, lontano dalle terribili radiazioni e le loro conseguenze, vista come una vergogna, qualcosa di inconcepibile, impensabile. Perchè non si trova giusto scappare lasciando il resto dei parenti, amici, connazionali ad affrontarle da soli. No, la fuga non è tollerabile, sarebbe un onta e un disonore poi far ritorno in Giappone quando le cose sono tornate alla normalità.

    E anche la dignità, la compostezza e la calma di chi non piange nemmeno di fronte ad un disastro simile, educato fin da bambino a fare il proprio dovere e a non abbandonarsi ai sentimentalismi.

    E ancora...la rabbia e l'orgoglio di essere giapponesi, e di non essere "colonia culturale" dell'Occidente, fieri del proprio passato e per nulla disposti ad abbassarsi ad accettare "l'ottica occidentale". Ma anzi, quasi tra le righe un invito all'Occidente di smettere di imporre la propria visione del mondo e delle cose, e di guardare a quella giapponese per quello che è, accettandola e rispettandola. E magari anche imparando un po' da essa.

    Fa davvero riflettere questo articolo, sul Giappone vero, non quello idealizzato e che abbiamo conosciuto attraverso le più disparate fonti. Il Giappone reagisce così alle catastrofi, non chiede aiuto e non vuole aiuto (difatti, non si è sentito nessun appello alla solidarietà internazionale, come invece chiese Haiti, per fare un esempio) , vuole farcela con le proprie forze e senza interferenze. Vuole rialzarsi e lo farà, con la caparbietà di un popolo devoto alla madrepatria e che da secoli mette in secondo piano i propri egoistici desideri per il bene e il futuro di tutti.

    Edited by YukiIce89 - 10/4/2011, 15:34
     
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    Molto interessante.
    Sinceramente penso che questo sia uno solo degli infiniti esempi che oppongono il nuovo pensiero occidentale, che del vecchio mantiene la sensazione di superirorità assoluta e contemporaneamente di missione divina, e il pensiero giapponese, certo, ma anche estremo-orientale in genere (gli esempi e le celebrazioni di analoghe situazioni in Indocina, Corea e Cina non sono dissimili).
    Ed è un esempio dei più amari dello scoprire che la persona amata non è quella che pensavi che fosse, da entrambe le parti.
     
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  3. Yamashita~
     
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    Bellissimo articolo, davvero.
     
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  4. donpis
     
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    Grazie Silvio
     
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  5. Yumi™
     
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    Bellissimo articolo. Sono davvero commossa e ora comprendo ancora di più perché ho scelto di studiare la lingua e la cultura di questo popolo così diverso seppur così avanti a noi per molte cose.
     
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  6. àky
     
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    Bellissimo..questo mi mancava..!!
    Le parole di Kyoko fanno rabbrividire e allo stesso tempo commuovere, suscitano interesse ma quasi paura..mi hanno davvero impressionata..
     
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  7. ~Odino
     
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    Leggere un questo articolo è stato a dir poco toccante, è palese come per l'ennesima volta noi occidentali cadiamo nella fossa della nostra secolare presunzione..
    Mi vergogno della ristrettezza degli schemi mentali della mia società, e mi vergogno di me stesso..
     
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    Mi ha fatto commuovere, e comprendere ancora meglio quanto la mentalità giapponese sia distante dalla nostra.
    Mi viene da chiedermi se mai un giorno l'Italia o qualsiasi altro Paese occidentale riuscirà a raggiungere almeno la metà di quella coesione e di quel senso civico che scaturisce da queste righe.
    Sono cose troppo radicate, troppo..
     
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  9. Gearofchaos
     
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    CITAZIONE (~Odino @ 31/5/2011, 09:34) 
    Leggere un questo articolo è stato a dir poco toccante, è palese come per l'ennesima volta noi occidentali cadiamo nella fossa della nostra secolare presunzione..

    Concordo pienamente.
    Devo ammettere che spesso e volentieri qui in Europa si tenda ad imporre i propri ideali e i propri usi sui paesi vicini, mentre probabilmente saremmo noi a dover riprendere parte degli aspetti culturali dei paesi a noi estranei...
    C'è anche da dire che qui oltretutto non di rado capita di sfruttare certi ideali per il proprio tornaconto... :sosp:
     
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    Vero, e un popolo orgoglioso e testardo come quello giapponese, che durante il periodo Meiji ha preso a modello l'Occidente perchè molto, molto più avanzato di lui, ora non ha più bisogno di guardare a noi, anzi, direi che quanto a progressi tecnologici ci ha ampiamente superato. E forse in certi aspetti (non tutti, non facciamo il loro errore di Periodo Meiji di cancellare la nostra identità e il nostro passato) dovremo essere noi, adesso, a prendere esempio dal Giappone.
     
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  11. Tanakachan
     
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    :sniff: 感動的な・・・ commovente...
     
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  12. NeKo_KaWaii
     
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    semplicemente commovente e toccante..grazie per averlo postato
     
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  13. Hikaaa93
     
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    Bell'articolo davvero, mi ha emozionata..è davvero commovente. Grazie per averlo postato.
     
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12 replies since 26/3/2011, 14:52   1253 views
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