HANABI TEMPLE » Il Giappone a portata di clic! ~

Posts written by Damon89

  1. .
    Mi avevano accennato qualcosa ieri, ma non pensavo fosse stata una scossa così forte. A dire il vero poi mi avevano detto (o forse avevo capito male io) che era stata colpita solo Rimini, e non diverse città.

    Non è una cosa che mi colpisce personalmente, visto che anche io al momento sto a Roma, però devo ammettere di esserci rimasto un po' male perché è una zona molto vicina a dove abito realmente (ossia Pesaro, che è poco più a sud). Che mi rendo conto che detto così è un motivo estremamente stupido per rimanerci male, ma penso sia abbastanza normale sentire le cose in maniera più forte tanto più sono vicine a noi.

    La cosa che mi ha dato più da pensare è che non è passato molto tempo dal terremoto dell'Aquila; avevo sempre visto i terremoti come eventi che (almeno in Italia) capitano raramente, con quelli realmente dannosi che accadono a intervalli di almeno dieci anni, quindi non mi aspettavo assolutamente una cosa del genere.
  2. .
    Di politica ne capisco poco, quindi prendete tutto cum grano salis, ma temo di aver perso rispetto per questo tizio appena letta la frase "non cantare l'inno è una bestemmia contro la democrazia". XD
    Sul resto del programma, la frase sulla dittatura inquieta un po' ma forse è fatta a effetti propagandistici. Il fermare il nucleare è un punto difficile da valutare (per me, perché non ne conosco bene il rapporto fra vantaggi e danni) - idealmente viene da dire che fa bene a volerlo fermare perché il nucleare è pericoloso, ma ci sono troppi fattori di cui non sono a conoscenza per potermi esprimere così a dritto.

    La cosa di Osaka come capitale di riserva mi sembra un po' una cosa da film di fantascienza, ma visto che è accaduto in passato che la capitale fosse messa in crisi da un terremoto, forse non è neanche una cosa così peregrina.

    In sostanza, boh. Il tizio non mi piace, per la suddetta frase sull'inno nazionale, ma allo stato attuale non mi sembra neanche nazista o che altro. Ovviamente potrebbe diventarlo nel caso prendesse il potere, ma qui si entra nel campo della speculazione.
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    L'ho finalmente visto anch'io!

    È molto bello. T_T
    Non dico altro. T_T
  4. .
    Tendo a dilungarmi, quindi se non ve ne può fregar di meno della mia introduzione, saltate a sotto la riga orizzontale. Lì comincia il racconto.

    Non so esattamente cosa mi abbia spinto a postare qui, ma navigando senza meta per la sezione ho sentito l'impulso di farlo.
    Ero incerto se mettere la dicitura "racconto" o "fan fiction", perché in realtà non è né l'uno né l'altro. È un romanzo, ed è ispirato non da un libro o un film, ma da un GdR via chat cui giocavo tempo fa. Da questo GdR ho preso alcuni personaggi ed eventi, ma solamente quelli che (nella timeline del "racconto") accadono nel passato.

    Si tratta di qualcosa che scrissi parecchio tempo fa; l'idea mi venne nel 2007 o 2008 penso, e le ultime modifiche le ho fatte a febbraio 2011. Pur avendo programmato l'intera storia, ho scritto e completato solamente il prologo e i primi due capitoli e mezzo (il terzo è stato cominciato ma non terminato). Perché? Semplicemente perché col tempo la "grandezza" della cosa mi ha un po' scoraggiato, e il sapere che anche se lo avessi terminato non avrei potuto neanche tentare di pubblicarlo (dal momento che riprende molte cose dal suddetto GdR, che gode di copyright) ha fatto il resto.
    Al momento non so se continuerò a scrivere questo racconto. La voglia astratta di vederlo completo c'è, ma razionalmente la vedo come una cosa che, oltre a richiedere tempo, non è in alcun modo produttiva. Quindi per il momento rimarrà in questo limbo di incompletezza... chissà, un giorno forse avrò l'ispirazione per continuarlo. In fondo la storia c'è già, bisogna solo metterla su carta.




    PROLOGO


    Da qualche parte, 2190 circa

    La stanza era piccola e polverosa. Estremamente polverosa. Inutilizzato, il robot per le pulizie giaceva in un angolo, anch'esso coperto di polvere; chissà se funzionava ancora. Lui invece era sdraiato sul letto, le caviglie incrociate e le braccia dietro la testa, a formare un cuscino. Era vestito come se dovesse uscire, ma non aveva la minima intenzione di lasciare la stanza almeno fino alla sera. I suoi abiti erano logori, impolverati anch'essi e sudici. Aveva perso il conto del tempo; probabilmente non li toglieva da almeno un mese, forse due. La stanza era immersa nel silenzio più assoluto, turbato solo dal respiro regolare dell'uomo. Finché, ad un tratto, non squillò il telefono.

    L'uomo voltò la testa, osservando quella conchiglia bluastra e scolorita che era il suo telefono cellulare, pieno di graffi e ammaccature . Lo lasciò squillare. Non riceveva chiamate da molto tempo, e c'era un motivo: non ne voleva. Per diversi secondi rimase a osservarlo, aspettando che il trillo cessasse. Non accadde nulla del genere. Sbuffò seccato, voltando nuovamente la testa e tornando a fissare il soffitto. “Smettila...” pensò; ma la persona all'altro capo della linea evidentemente non la pensava come lui. Era passato forse più di un minuto, quando finalmente decise di prendere il telefono, guardare il numero e infine rispondere.

    “Che diavolo vuoi?” Il tono non era particolarmente amichevole, ma ciò non bastò a dissuadere l'interlocutore.

    “Deh. Lo sapevo che bastava insistere.” La voce era roca in un modo che solo decine di anni di fumo intensivo possono causare. “Ho una notizia che ti interesserà.”

    “Sarebbe?”

    “Moranis.”

    “Eh?” Era sicuro di aver capito male. Scherzi dell'isolamento prolungato.

    “Moranis. Non mi dire che non ti ricordi di lui.” Seguì una breve risata, sommessa e gutturale. “Non il padre, logicamente. Il figlio, William Ismael.”

    “Mi hai chiamato per ricordare i tempi passati?” Non sapeva se essere più seccato o deluso. “Ti saluto.” Allontanò il telefono dal proprio orecchio, e stava per terminare la chiamata.

    “È ancora vivo.” La voce parlò in fretta.

    Anche se gli giunse a volume più basso a causa della distanza dal ricevitore, riuscì a distinguere chiaramente quelle parole. Riavvicinò il telefono all'orecchio. “Stai scherzando.”

    “Oh no, niente affatto.” La voce era di nuovo calma, sicura adesso di aver catturato l'attenzione. Di nuovo quella risata gutturale. “Ti assicuro che è vivo. Ti dirò di più, è fra le alte cariche della CO; si dice sia il primo della lista per il ruolo di futuro Head Manager.”

    “...” Rimase in silenzio, per diversi secondi. La voce all'altro capo fece altrettanto, senza fare domande superflue. “Sarò da te fra un'ora.”

    Allontanò nuovamente il cellulare. Questa volta il discorso era realmente giunto alla fine.




    CAPITOLO 1


    25 marzo 2043, 4:07 P.M. – strade di Kessel


    Venne bruscamente mandato fuori dal centro accoglienza. Niente violenza, ovviamente; le parole sbrigative e i gesti impazienti erano sufficientemente chiari, e generalmente la gente era troppo confusa dal risveglio per poter reagire in maniera coerente.
    In media, riflettevano su quanto gli veniva detto un'ora dopo essere usciti e aver raggiunto il proprio cubicolo. I meno svegli duravano anche fino alla mattina dopo.
    Lui fu uno dei pochi a formulare domande decenti all'addetto; la cosa sembrava averlo innervosito non poco, e forse era proprio quello il motivo per cui il resto delle pratiche era stato sbrigato in tutta fretta.

    Kessel.
    La città del futuro.
    La città dove tutto era bello, pulito e ordinato.
    La città dove chiunque, indipendentemente dal suo background culturale, poteva avere successo.
    Contaci.

    Garyo stava camminando per strada, mentre questi pensieri gli si affollavano in testa. Era in movimento da un po' ormai, quando si rese conto che non sapeva dove stava andando. Si diede un'occhiata intorno, e la sua attenzione fu catturata da una cosa inserita dentro il muro del marciapiede. Somigliava ai vecchi bancomat, tanto che lì per lì non ci fece caso; fu passandoci vicino che notò una tastiera completa e la scritta “terminale pubblico”.
    Si fermò e premette un tasto. Immediatamente comparve la scritta “inserire carta di credito”. Emise un sospiro, e stava già per voltarsi quando notò la scritta più sotto, in caratteri più piccoli: “solo a scopo di identificazione, non verrà addebitato alcun costo”.
    Dopo un attimo di indecisione inserì la carta, e lesse l'ipocrita schermata di benvenuto. Gli si parò davanti un menù con diversi tasti: bacheche pubbliche, legislazione, TK Media Network, mappa... si fermò quando lesse quest'ultima scritta, e premette senza indugi il tasto.

    Non si stupì di scoprire che la città era stata costruita in maniera rigorosamente geometrica: una struttura complessiva esagonale, strade tutte parallele o perpendicolari tra loro.
    Vide un pulsante al lato, con l'icona di una griglia. Lo osservò per un istante, chiedendosi il suo significato, poi decise che non ci sarebbe stato nulla di male nel provare. Premette il dito contro lo schermo, e la mappa si colorò a rappresentare graficamente una suddivisione in zone: verde, gialla, rossa.

    Studiò la schermata per qualche istante, poi provò a toccare un'area qualunque. Apparve il nome “Fuji Street”, e la zona che corrispondeva al quartiere orientale divenne leggermente più accesa. “...a ovest?” si chiese un po' perplesso, prima di continuare la sua esplorazione virtuale. Impiegò qualche minuto, ma infine trovò quello che cercava: Parker Street, il quartiere irlandese – e la sua nuova casa, apparentemente.

    Chiuse la mappa e uscì dal menù del terminale. Dopo un messaggio di addio più ipocrita di quello di benvenuto, ritirò la propria carta e si incamminò verso il proprio cubicolo.

    28 dicembre 2199, 1:38 A.M. – un appartamento di classe A all'interno della CrioTower

    “Ma dove diavolo...” incespicò al buio, tastando la parete con la mano in una disperata ricerca. “...ci hanno rubato l'int... aah!” si sentì un colpo secco, e poi un tonfo.

    “Oddio, stai bene?” la voce della ragazza lo raggiunse più o meno dal punto dove egli stesso si trovava pochi secondi prima.

    “Ow...” si lamentò Ariel (con l'accento sulla e, se no si arrabbia) massaggiandosi la testa dolente “...sono inciampato... ma dove cazzo è il pulsante?”

    Si sentì un click, e la stanza si illuminò istantaneamente. Alzando lo sguardo, Ariel vide la sorella con la mano ancora appoggiata alla parete.

    “...a sinistra, Ariel. È sempre stato a sinistra,” sospirò, staccando il dito dall'interruttore, e si avvicinò al ragazzo tendendogli la mano. “Forza, su.”

    Ariel fece il broncio, portando avanti il labbro inferiore e guardando Kim. “Ma ti pare che abbiamo le macchine volanti, le armi laser, le... boh, la straroba e a nessuno è venuto in mente di inventare un aggeggio che ti accende la luce da solo quando entri in una stanza?”
    Vide che la sorella lo guardava impassibile, quindi sbuffò e le prese la mano, facendosi aiutare a rialzarsi. “...uffa.”

    Ridacchiando, Kim gli fece una carezza sulla schiena. “Non cercare scuse... sei stato sconfitto da un temibile interruttore della luce. Ma sono sicura che la prossima volta ti andrà meglio.”
    Si morse il labbro inferiore subito dopo aver parlato, come se ciò potesse impedire alle parole, ormai già uscite, di essere pronunciate.

    “Eh, già...” sospirò Ariel, incupendosi un po' e buttandosi a sedere scompostamente sul divano. “La prossima volta... probabilmente sarà in occasione del mio funerale o qualcosa di simile. Sono diventato maggiorenne e il vecchio mi ha lasciato uscire per ben un'ora. Sotto scorta. In fin dei conti ero già uscito a prendere un gelato insieme a una decina di scimmioni quando avevo 5 anni, quindi questa gran fretta di tornare a fare un giro non c'era, no?”

    Ariel, forse con rinnovata saggezza da neo-maggiorenne, si accorse quasi subito che c'era qualcosa che non andava nel pesante silenzio che seguì il suo piccolo sfogo. Si voltò verso la sorella, vedendola con lo sguardo basso e rivolto altrove, e si sentì subito in colpa. “Kim... non volevo dire... ovviamente non è colpa tua...”

    “No, tranquillo...” La ragazza rialzò appena lo sguardo, accennando timidamente un sorriso che non sembrava troppo convinto.

    Anche Ariel abbozzò un malinconico sorriso in risposta. Esitò per un istante, quindi allungò le braccia verso la sorella in un gesto di invito. “Su, vieni qui.”

    Kim si avvicinò, mettendosi a sedere sul divano di fianco al fratello e abbracciandolo come non faceva da tempo. Si strinse addosso a lui come un uomo che sta per affogare a un salvagente. Fu dopo aver ricambiato l'abbraccio che Ariel si accorse che la sorella “vibrava”, singhiozzando silenziosamente.

    “Kim... è per quello che ho detto? Io non...”

    La sorella lo interruppe, allentando la presa e scuotendo la testa, indietreggiando con la schiena quel tanto che bastava per poterlo osservare negli occhi. “No, non è per quello...”
    Si sciolse dall'abbraccio, appoggiandosi allo schienale del divano e asciugandosi le lacrime con il dorso della mano sinistra. “È per... per tutto. Per il fatto che non ci fanno mai uscire, che non ci fanno mai conoscere gente della nostra età... o anche gente non della nostra età. È come stare in prigione... non so per quanto ancora riuscirò a sopportarlo.”

    Ariel sospirò, abbassando lo sguardo. Avrebbe voluto fare qualcosa, smentirla, rassicurarla, dirle che sarebbe andato tutto bene o che a breve le cose sarebbero cambiate. Ma sapeva benissimo che non era così. Per quanto ciò lo facesse sentire impotente, preferì rimanere in silenzio piuttosto che fare vuote promesse di miglioramento.

    Improvvisamente, si sentì uno strano colpo di tosse. Sia Ariel che Kim si voltarono di colpo verso l'ingresso, sorpresi, e vi trovarono una delle loro guardie del corpo. Era impossibile dire quale fosse, tra le tante, in parte perché cambiavano spesso e non comunicavano i loro nomi, e in parte perché tutte le guardie del corpo indossavano una suit che li copriva da capo a piedi, celandone il volto con un elmetto e uniformando qualunque caratteristica corporea (tranne peso e altezza) – compresa la voce, modificata attraverso un distorsore che la rendeva robotica e metallica.

    “Chiedo scusa, non volevo intr...”

    “Che cazzo ci fai qui?” sbottò Ariel, fissandolo con aperta sfida. “Qualcuno ti ha dato il permesso di entrare? Vuoi accompagnarci anche al bagno? Hai l'ordine di startene fuori, seguilo! O temi che qualche pericoloso terrorista si sia nascosto sotto il tavolo della cucina per assassinarci?”

    La guardia esitò per qualche istante, prima di dare un altro colpo di tosse, quasi più distorto del primo. Non sembrava molto a proprio agio, contrariamente alla maggior parte delle guardie. “No, nulla del genere. O meglio, sì, qualcosa del genere, ma non proprio.”

    Ariel stava iniziando a perdere la pazienza. “È bello confermare di persona che non esiste effettivamente una guardia del corpo intelligente. Proviamo a parlare più lentamente: cosa – cazzo – vuoi?”

    Kim aveva un'espressione di difficile interpretazione, che sembrava a metà fra il seccato e l'intimorito, e dopo le ultime parole del fratello gli si avvicino un po', quasi a fare un fronte unito contro il “nemico”.

    L'uomo (chissà se era un uomo o una donna?) in suit tossì ancora una volta, quasi come se avesse un bisogno compulsivo di schiarirsi la voce. “Stavo appunto per spiegarmi, quando lei mi ha interrotto nuovamente.”

    “Oh, ma che carino, mi dà anche del lei. Gradisce un the con i biscotti, per caso?” disse Ariel, senza riuscire a trattenere un'espressione più di disprezzo che di sarcasmo.

    Questa volta la guardia non tossì, ma Ariel notò che aveva abbassato lo sguardo, in maniera quasi impercettibile. “Non è il momento per scherzare, temo. Ho appena ricevuto l'ordine di farvi evacuare dall'appartamento.”

    Ariel non poteva credere alle proprie orecchie. Non riuscì a capire bene cosa provò, se fosse fastidio, curiosità, o forse eccitazione al pensiero di un'altra possibilità di uscire. Non ebbe neanche il tempo di chiederselo, in verità, ma non riuscì a rispondere se non dopo qualche istante. “...che cosa? Perché?”

    La guardia fece un passo verso di loro, e Ariel notò qualcosa di strano, ma non riusciva a capire cosa fosse, preso com'era dal discorso. “Non ho tempo di spiegarvi, dobbiamo andarcene rapidamente. Vi prego di seguirmi.”

    Ariel sentì Kim che stava per alzarsi, ma qualcosa lo spinse a trattenerla con la mano. Forse era solo il suo istinto da teenager ribelle, amplificato dalla situazione in cui si trovava; fatto sta che incrociò le braccia e reclinò la testa all'indietro, guardando l'individuo in suit quasi con superiorità. “Col cavolo sintetico che ti seguo. Cos'è, ci sono davvero i terroristi nascosti nell'armadio? Siamo nel posto più sorvegliato di tutta Kessel, e non vedo un motivo che sia uno per cui dovrei darti retta.” Aggrottò la fronte, sciogliendo le braccia e piegandosi in avanti per scrutare meglio il suo interlocutore. “E tra l'altro sei la guardia più bislacca che abbia mai visto.”

    L'uomo in suit emise un sospiro, e dopo qualche istante sembrò stesse per dire qualcosa, quando venne interrotto dal ragazzo.

    “Io rimango qui.” disse Ariel, tornando a braccia conserte e voltando la testa di lato, sprezzante. “Se proprio ci tieni a farti obbedire, sparami. Poi voglio vedere come lo spieghi al tuo capo.”

    Fu Kim a dare un lieve colpo di tosse, stavolta. Parlò sottovoce, forse un po' intimorita. “Ariel... lascia stare, non ne vale la pena... sta solo facendo il suo lavoro, dai.”

    “Ma che lo vada a fare da un'altra parte il suo lavoro! Ti pare che oltre a stare in gabbia come i canarini dobbiamo pure 'evacuare l'appartamento' senza motivi plausibili, e tra l'altro alle due di notte?”

    “Ma ha detto che il motivo c'è, è solo che non ha tempo di spiegarcelo...”

    La guardia tentò flebilmente di interromperli, alzando una mano. “Vi assicuro che è una cosa della massima urgenza, e dobbiamo...”

    Ariel lo interruppe, sovrastandolo con la voce, senza neanche ascoltarlo. “Ma lo difendi pure?”

    Il ragazzo sentì il rumore della porta che scorreva, aprendosi, e sia lui che la sorella si voltarono istintivamente in quella direzione. Ne entrarono due guardie in suit, entrambe armate, e si rivolsero a loro con tono decisamente più burbero del loro collega. “Abbiamo sentito urlare. Ci sono problemi?”

    Ariel sbuffò, infastidito da quell'ennesima intrusione. “No, no, figuratevi. Anzi, se volete unirvi alla festa si può fare un poker in cinque col vostro...” le parole smisero di affiorare quando, voltandosi verso il luogo dove fino a pochi istanti prima si trovava la “guardia gentile”, vide che non c'era più nessuno.
    “Ma che...” si voltò verso Kim, che sembrava altrettanto perplessa, e scosse la testa per fargli capire che ne sapeva quanto lui.

    Una delle guardie inclinò la testa, senza capire cosa stesse accadendo. Esitò qualche istante prima di parlare. “Se non ci sono problemi, torniamo a piantone.” Si voltò, e fece per uscire quando venne fermato dalla voce del ragazzo.

    “Ehi, aspetta. E l'evacuazione?”

    La guardia si voltò di nuovo, esitando ancora più a lungo di prima nel rispondere. “Evacuazione? Non so di che stai parlando, ragazzino, ma se vuoi andare in bagno penso che lo puoi fare anche senza scorta, no?” Rise sguaiatamente, seguito pochi istanti dopo dal collega, a cui diede di gomito.

    La risposta di Ariel suonò quasi come un ringhio, inizialmente. “Ma io ti... un altro idiota come voi, che...” indugiò, non sapendo come impostare la cosa. “...che era qui fino a un attimo fa, ci aveva detto che dovevamo essere evacuati con urgenza. Un ordine appena arrivato.”

    Entrambe le guardie si fecero immediatamente più serie, e sembrarono irrigidirsi. “Di che cazzo stai parlando? Fino alle due ci siamo solo io e lui di turno qui.” disse quello che aveva parlato finora, e che con tutta probabilità era il superiore dei due.

    Al sentirsi rispondere a quel modo, Ariel si infiammò ancora di più. “Oh, pensi che mi invento le stronzate per darti fastidio? Era vestito esattamente come voi, e...” si fermò, ricordando solo ora il particolare che l'aveva colpito in precedenza. “...e non era armato... non aveva neanche la fondina, ora che ci penso...”

    Le guardie si fecero ancora più tese, e alzarono appena l'impugnatura del fucile. “Un intruso? È impossibile.” Ci fu un silenzio teso per qualche istante, seguito da un'imprecazione. “Se ci stai prendendo per il culo, te la faccio pagare ragazzino.”

    “Sì certo, mi fai punire dall'alto del tuo rango di scimmione. Ma per favore.”

    La guardia ringhiò, voltandosi verso il compagno e portando la mano sinistra all'elmetto. “Dobbiamo dare l'allarme e avvisare il piano terra.”

    Ariel sgranò gli occhi, guardando un punto dietro le guardie. “Ehi, att...”

    Non fece in tempo a finire la frase, che si sentì un colpo secco, seguito dal clangore metallico dei due corpi in suit che cadevano a terra. Fu tutto talmente rapido che Ariel non riuscì a capire cosa fosse successo esattamente, ma vide che le due guardie in terra non avevano più l'elmetto. Quello che aveva parlato finora era un tizio sulla trentina, con i capelli scuri e una visibile cicatrice lungo il volto, mentre l'altro sembrava più anziano e pelato. Ma non era molto interessato al loro aspetto, per il momento.
    Alzò lo sguardo, sentendo Kim che si stringeva ancora di più a lui e in cerca di una spiegazione, e vide nuovamente la guardia di prima – quella disarmata – che teneva gli elmetti, uno per mano.

    Li appoggiò delicatamente a terra, e si schiarì nuovamente la voce. “Avevo cercato di avvisarvi che si trattava di una faccenda urgente, ma non mi avete ascoltato.” Sospirò. “Spero che non abbiano davvero fatto in tempo a dare l'allarme.”

    Questa volta Ariel non faticò a distinguere cosa stava provando: aveva paura. Per quanto volesse uscire da quella torre e avere una vita degna di questo nome, non era certo questo il modo in cui si aspettava di esservi introdotto. Soprattutto, non sapeva cosa volesse l'uomo in suit da loro. Dal suo modo di porsi gli era sembrato inoffensivo... ma aveva steso due guardie addestrate senza batter ciglio.
    Alternò lo sguardo fra i due corpi a terra e quello in piedi, prima di uscirsene con una frase a metà. “Che... che hai...”

    L'uomo rispose prima che la potesse completare, con tono ora leggermente seccato, liberandosi apparentemente degli ultimi rimasugli di quel poco riuscito travestimento da “guardia gentile”. “Che ho fatto? Niente di particolare, gli ho fatto battere una capocciata come nei film di Bud Spencer e Terence Hill.”

    “Di... di chi?”

    “Non importa. Se invece volevi chiedermi cosa ho intenzione di fare, è più lungo a spiegarsi. Motivo per cui non lo farò. Anche se questi due geniacci non hanno dato l'allarme, alle tre arriverà il cambio e si accorgeranno che c'è qualcosa che non va. Bisogna muoversi in fretta.”
    Fece un paio di passi verso Ariel e Kim, che si ritrassero appena sul divano, istintivamente. Ma lui non cercò di avvicinarsi molto, rimanendo a qualche metro di distanza.
    “Punto primo: non ho intenzione di farvi del male. Anche se ovviamente dovreste prima capire se potete fidarvi o meno della mia parola, ma non c'è tempo per le disquisizioni filosofiche. Punto secondo: che voi veniate o meno con me, io fra cinque minuti al massimo me ne andrò. Non ci tengo a finire sulla forca. Punto terzo, nonché ultimo e più importante: so in quali condizioni vivete, e so che volete andarvene. Sono venuto qui apposta, e sono la vostra unica possibilità per farlo. Ma non posso costringervi, e non ho né il tempo né gli strumenti per convincervi a fidarmi di me, quindi vi lascio una semplice scelta.”
    Fece una pausa, quasi ad arte, e si voltò per avvicinarsi al muro, parlando di spalle mentre camminava. Il suo passo, al contrario delle sue parole, sembrava incerto e irregolare, ma ancora una volta Ariel era troppo distratto dal suo discorso per dare una forma ben definita a quella sensazione. “Venite con me e vivrete liberi, o aspettate che me ne vada e vivrete per sempre prigionieri. Dopo quest'episodio vostro padre aumenterà sicuramente la sorveglianza per evitare che la cosa si ripeta, e sareste ancora più in gabbia.”
    Era giunto al muro e si voltò, appoggiandovisi con la schiena e incrociando gambe e caviglie. “Avete quattro minuti netti per scegliere cosa fare, dopodiché me ne andrò.”

    Ariel per tutto il discorso era rimasto a fissare la “guardia” con un'espressione di tale sbigottimento che, se si fosse visto allo specchio, probabilmente si sarebbe messo a ridere. Ma ora non aveva affatto voglia di ridere. Si voltò verso Kim, e notò che la sua espressione non era più impaurita, e che aveva allentato la presa.

    Il volto della sorella era deciso, di una risolutezza che ricordava di averle visto in poche e gravi occasioni. Si alzò in piedi, guardando dritto verso l'intruso e parlando con voce ferma. “Io vado.”

    “Kim... aspetta, dobbiamo riflettere.” cercò di interromperla Ariel.

    La ragazza scosse la testa, voltandosi verso di lui. “No, Ariel. Non c'è nulla da riflettere. Non ho idea di chi sia questo tizio, né perché sia entrato in casa nostra. Né tanto meno mi fido di lui, tra l'altro. Ma su una cosa ha ragione: se non facciamo nulla, dopo questa sera nostro padre aumenterà ancora di più le misure di sicurezza, e vivremo peggio degli animali allo zoo. Personalmente, preferisco rischiare.”

    “Tre minuti.” ricordò la voce dell'uomo. Ci fece caso solo ora, ma non era più distorta. Era una voce dal timbro basso, calma, con le singole parole ben scandite. Per certi versi ricordava quella dei narratori dei documentari, se non fosse che la voce di questi ultimi era in genere più acuta e molto più noiosa in contenuto.

    Ariel strinse i denti, e anche i pugni. Non sapeva cosa decidere. Il discorso di Kim aveva senso, ma non poteva fare un salto nel vuoto a quel modo, senza neanche rifletterci un po', alla cieca. Ma aveva meno di tre minuti per decidere, e non aveva grandi opportunità per riflettere.

    “Due minuti. Ti consiglio di riflettere in fretta, Ariel.”

    “Va bene! Va bene!” scattò in piedi, e si rese conto di aver parlato a voce forse un po' troppo alta. Non voleva attirare l'attenzione di altre guardie, tanto più che la porta era ancora aperta, e abbassò il volume a quello di conversazione normale, sospirando. “Non so cosa pensare, e probabilmente me ne pentirò... ma non posso lasciar andare mia sorella da sola.”
    Si avvicinò a lei, abbracciandola all'altezza delle spalle. “Verremo con te. Anche se sono curioso di sapere come hai intenzione di uscire da qui senza farti vedere.”

    Con un cenno del capo, l'uomo indicò i due individui a terra. “Prendete le loro suit e indossatele.”

    “Ma...”

    “Niente ma. Non posso portarvi fuori di qui senza un travestimento. Odio ripetermi, ma dobbiamo fare in fretta, o non riusciremo a uscire di qui prima del cambio della guardia.”

    Ancora un po' scosso, Ariel si accucciò vicino alla guardia. Non aveva idea di come si smontasse quella suit, ma l'operazione si rivelò più intuitiva e semplice di quanto avesse pensato.

    Mentre lui e la sorella si stavano vestendo, videro l'uomo trascinare i due corpi in un'altra stanza. Tornò prima ancora che avessero finito di indossare la pesante armatura.
    “Li hai...?”

    “Legati, imbavagliati e chiusi nel bagno. Non sono un assassino. Ho rotto la serratura elettronica della porta, dubito che riusciranno a uscire da soli, anche se riprendessero i sensi prima dell'arrivo degli altri.”

    Mentre finiva di indossare gli ultimi pezzi, Ariel non riuscì a trattenere una domanda che aveva sulla punta della lingua da un po'. “Perché stai facendo tutto questo?”

    L'altro esitò, come colto in contropiede dalla domanda. “...diciamo... per rispettare una promessa a un vecchio amico. Forza, andiamo. Abbiamo già perso troppo tempo.” Si diresse verso la porta.

    Ariel finalmente riuscì a capire cos'era il particolare strano che aveva notato nel passo di quell'individuo. Si appoggiava sulla gamba sinistra più che sulla destra, come se zoppicasse, ma era un'irregolarità abbastanza sottile da non essere immediatamente visibile.
    Cercò di seguirlo, e quasi perse l'equilibrio. Avere addosso quell'ingombrante suit rendeva i suoi movimenti molto più goffi e impacciati – e per un ragazzo abituato a movenze feline come lui, era uno shock. Si voltò verso Kim, e notò che la ragazza sembrava invece riscontrare meno difficoltà, anche se i suoi spostamenti sembravano ugualmente comici e innaturali.
    “Oi, aspetta! Non è mica facile muoversi dentro questi cosi...”

    L'uomo si fermò sull'ingresso, voltandosi e osservandoli. “Sforzatevi. Dovremo passare di fronte ad altre guardie, e non devono sospettare nulla di strano. Cercate di abituarvi in fretta.” Sparì oltre la soglia.

    “Eh, sforzatevi... fa presto a parlare, lui...” Ariel lo seguì, insieme alla sorella. Dopo che ebbero oltrepassato la porta, la sentirono chiudersi dietro di loro, e per il ragazzo si accese una nuova lampadina. “La porta...”

    “Mh?” chiese Kim, voltandosi verso di lui.

    “Il rumore della porta... l'ho sentito ora, e quando sono entrate le due guardie prima... ma non quando è entrato lui...”

    “Mmh... probabilmente non ci hai fatto caso perché stavamo parlando.”

    “Ma stavamo parlando anche quando sono entrate le guardie! Anzi, stavamo quasi urlando!”

    “Sst!” intimò la voce dell'uomo, poco distante. “D'ora in poi dovrete parlare solo se qualche altra guardia vi rivolge la parola, finché non saremo usciti di qui. Attivate il distorsore.” Premette un pulsantino sull'elmetto, e quando parlò di nuovo la sua voce era metallica come all'inizio. “Imbracciate il fucile e seguitemi stando uno a fianco all'altro.”

    Ariel premette il pulsantino. “D'accordo...” Fu quasi stupito dal sentire la sua voce così diversa, e a giudicare dall'occhiata che gli rivolse la sorella (o da quello che si poteva intuire, dato l'elmetto), capì che ella fu altrettanto colta alla sprovvista.
    Si sforzò di imitare la postura e la camminata delle guardie. Teoricamente non gli sarebbe stato difficile: ne aveva viste passare a migliaia e sapeva benissimo qual era il loro modo di muoversi. Il problema era la forza richiesta per muoversi con apparente naturalezza all'interno di quel maledetto scafandro.

    In qualche modo riuscirono ad arrivare all'ascensore, che si trovava già al loro piano. Di notte non c'era molto “traffico” all'interno del palazzo, evidentemente.

    Il loro misterioso rapitore gli fece cenno di entrare per primi, seguendoli una volta dentro per mettersi davanti a loro. Premette il pulsante del piano terra e aspettò che si chiudessero le porte per parlare di nuovo, a voce più bassa.
    “Questo è il passaggio più importante. Una volta usciti dalla torre sarà tutto più facile, ma finché siamo dentro dovete fare del vostro meglio.”

    “Certo che tu sai come mettere le persone a proprio agio, eh?” rispose Ariel, non riuscendo a tenere a bada la propria lingua nonostante la situazione tutt'altro che idilliaca.

    “Sst.” disse l'altro, un attimo prima che si aprissero le porte.

    Ariel vide uno spettacolo che non aveva avuto l'opportunità di vedere spesso, pur abitando in quel palazzo: il maestoso ingresso con le sue imponenti misure di sicurezza.
    La hall centrale era immensa, e sembrava tutto costruito in marmo bianco – anche se Ariel sapeva benissimo che era solamente una riproduzione sintetica del marmo, praticamente indistinguibile dall'originale. Davanti all'ingresso si trovava una lunga fila di postazioni di guardia, ognuna con un metal detector a fianco: erano i vari ingressi da cui chiunque volesse entrare o uscire doveva obbligatoriamente passare, sottoponendosi allo scrutinio della sorveglianza.
    Sorveglianza che, nonostante l'ora notturna, non era affatto più rilassata. Anche se solamente una delle postazioni di ingresso era attiva, dato il minore traffico notturno, c'erano almeno una decina di guardie sparse per la hall in varie postazioni.

    Il “rapitore” si avviò di buon passo verso il lato sinistro della stanza, e Ariel e Kim fecero del loro meglio per seguirlo ostentando la massima disinvoltura. Si stavano dirigendo verso l'ingresso di servizio, quello utilizzato dalle guardie per entrare e uscire senza far scattare ogni volta l'allarme del metal detector per le armi che portavano. Provvidenziale, dal momento che i metal detector rilevavano anche il chip di cittadinanza, rivelando alla guardia di piantone l'identità e i dati identificativi di chiunque passasse lì sotto. Per quanto fosse curioso di sapere chi fosse l'uomo che si era introdotto nel loro appartamento, pensò Ariel, non era quello il modo più adatto per scoprirlo.

    “Ehi, tutto a posto?” disse una voce metallica, una delle guardie vicino al passaggio di servizio. Ariel si irrigidì immediatamente; evidentemente non erano riusciti a mostrarsi disinvolti quanto avrebbero voluto. Non sapeva cosa rispondere, ed era sul punto di balbettare qualcosa quando un'altra voce metallica rispose alla prima.

    “Li ho sorpresi a ubriacarsi in servizio. È già tanto che riescano a reggersi in piedi, questi idioti.” fu la risposta, consegnata con una nota di disprezzo che sembrava quasi troppo verosimile per essere falsificata.

    Ariel tirò un sospiro di sollievo fra sé e sé. Non pensava che fingere di essere qualcun altro potesse essere tanto difficile e mettere tanta tensione addosso.

    “Capisco, signore.” rispose il primo, dando la solida impressione di essere più irrigidito di Ariel. Forse aveva scambiato l'intruso per un suo superiore con un simile modo di fare? Guardò con la coda dell'occhio fratello e sorella travestiti da guardie, ma non si azzardò a mettere in discussione apertamente l'ipotesi che fossero ubriachi. “Passate pure, signore.”

    Passarono tutti e tre attraverso l'ingresso di servizio, davanti a cinque o sei guardie. Anche se razionalmente si rendeva conto che il peggio era già passato, Ariel non poteva fare a meno di sentire la tensione aumentare a ogni guardia che superavano. Il timore che qualcuno li avrebbe fermati di nuovo si faceva maggiore con ogni secondo che passava, e forse stavolta non sarebbe andata loro altrettanto liscia.

    “Signore!” Queste parole arrivarono per Ariel come un pugno allo stomaco. Se lo sentiva. Si sforzò di non voltarsi, dato che le parole non erano rivolte a lui, ma non poté fare a meno di rivolgere uno sguardo alla sorella. L'elmetto non lasciava intravedere nulla, e si chiedeva se anche lei fosse preoccupata come lui. Quegli elmetti erano una vera fortuna, da un certo punto di vista.
    Davanti a loro, l'uomo in cui ormai riponevano tutte le speranze di uscire da quella torre si voltò verso la guardia, senza dire nulla.

    La guardia esitò per qualche istante, e si mise sull'attenti prima di parlare. “Ehm... signore, volevo chiederle chi rimarrà al comando della sorveglianza mentre lei sarà fuori, signore.”

    Per qualche istante non ottenne risposta. Ariel era quasi tentato di mollare tutto e consegnarsi, ma fu un pensiero che se ne andò con la stessa rapidità con cui era arrivato.

    Quando finalmente il “superiore” rispose, fu con un tono che riuscì quasi a intimorire anche i due ragazzi, che pure erano dalla sua parte. “Mi hai fermato per questa domanda da deficiente?” Pur essendo di spalle, Ariel riuscì quasi a percepire il sottoposto che si faceva piccolo piccolo. “C'è una gerarchia o no? Allora seguitela, invece di venire a disturbarmi per cose così futili.”

    “Sissignore, signore!”

    “E se non hai altri dubbi con cui seccarmi, andrei ad accompagnare questi due alla loro giusta punizione. Ci sono problemi?”

    “Nossignore, signore! Mi scusi signore!”

    La frase fu accompagnata dal rumore di passi, piuttosto affrettati, che si allontanavano. Era andata di nuovo bene. Ma per chi diavolo l'avevano scambiato, pensò Ariel, per Hitler? Che poi lui stesso non sapeva neanche molto di Hitler, ma per qualche motivo gli era venuto in mente.

    Si rimisero in cammino, varcando la soglia d'uscita del palazzo. Qui c'erano altre guardie a piantone, ma non osarono dire nulla, limitandosi a rivolgere un saluto militare al passaggio dei tre. Forse avevano sentito cos'era accaduto all'interno e non se la sentivano di rischiare di ricevere una punizione a loro volta, saggiamente.
    Si incamminarono per strade che Ariel non conosceva se non per averle viste dalle finestre del suo appartamento, e il ragazzo si sentì stranamente leggero, libero. Ma di sottofondo era sempre presente, anche se ora in forma ridotta, la tensione: erano usciti dalla CrioTower, ma dovevano ancora uscire dalla Green Zone, la zona più sorvegliata di tutta Kessel. Non era ancora finita.




    CAPITOLO 2


    28 dicembre 2199, 1:51 A.M. – strade della Green Zone


    Era da qualche minuto che camminavano, ormai. Ariel era convinto che avessero percorso almeno un chilometro dalla CrioTower, e la suit cominciava a sembrargli piuttosto pesante. Si voltò a rivolgere un'occhiata alla sorella, che gli diede l'impressione di essere più in difficoltà di lui.

    “Kim, tutto a posto?”

    “Sì, sì...” Le parole furono seguite da un sospiro, e il tono sembrava piuttosto affaticato. “Spero solo che potremo toglierci presto di dosso questi affari...”

    “Non prima di aver passato il confine della Green Zone. Dobbiamo fare in fretta; alle 2 ci sarà il cambio della guardia, e si insospettiranno non trovando nessuno. Abbiamo al massimo fino alle 2.05 prima che venga dato l'allarme generale e la zona venga sigillata.”

    “Si... sigillata?” disse Ariel, sgranando gli occhi.

    “Molto probabile. Pur essendo per definizione stupide, le sentinelle non ci metteranno più di qualche minuto a trovare i loro colleghi chiusi nel bagno e a rendersi conto che voi non siete in casa. Qualche altro minuto e faranno il collegamento con le tre guardie uscite prima – tra l'altro la suit che indosso è di un tizio che stasera non dovrebbe neanche essere in servizio. L'unica conclusione logica è che chiudano la Green Zone sperando che non abbiamo fatto in tempo a uscire.”

    “E... faremo in tempo?” chiese Kim.

    “Dipende. Non manca molto al confine, e se affrettiamo il passo riusciremo a raggiungerlo prima ancora del cambio della guardia. Il problema sarà oltrepassarlo: dobbiamo sperare che non ci trattengano per dei controlli, o che li facciano rapidamente. Siamo fortunati che le suit abbiano un chip di cittadinanza incluso, o ci riconoscerebbero subito.”

    Rimasero tutti e tre in silenzio per diversi minuti. Ariel cercò di affrettare il passo, e Kim sembrò fare lo stesso pochi istanti dopo. Sarebbe stato il colmo rimanere chiusi in una prigione poco più grande di quella da cui erano appena fuggiti. Ariel non sapeva se azzardarsi a sperare di farcela o arrendersi già da subito all'idea di venire catturati.
    Lo colse improvvisamente un pensiero, che lo tormentava già da un po': se fossero stati catturati, avrebbe scoperto l'identità dell'uomo che li aveva “rapiti”. O forse non glielo avrebbero neanche detto...
    Ci rimuginò sopra per parecchi secondi, prima di uscirsene con la domanda: “Chi sei, tu?”

    L'uomo si voltò, osservandolo per alcuni istanti. Quindi, riprese a guardare davanti come se nulla fosse.
    “Non ora. Non c'è tempo per parlare di una cosa del genere. Saprai tutto quando saremo al sicuro.”

    “Saremo mai al sicuro? Mio padre possiede questa città, e ci sono telecamere e controlli ovunque.”

    Ariel ebbe la netta impressione che l'uomo avesse abbozzato un sorriso, anche se non avrebbe saputo dire il motivo di questa impressione.
    “Giusta osservazione. Ma conosco un posto senza telecamere né controlli. Al profondo nord.”

    Ariel fece quasi un salto sul posto. “A... a nord? Nella Red Zone?”

    “Oltre la Red Zone. O forse si può ancora considerare parte della Red Zone. Non fa molta differenza. La cosa ti preoccupa?”

    “Sì che mi preoccupa. È un posto pieno di criminali, dove si rischia la vita a ogni angolo di strada.” Ebbe una breve esitazione. “O almeno, così mi hanno detto.”

    “Siete con me, quindi non avete nulla da temere. E poi il posto dove stiamo andando si trova oltre, è una zona di magazzini perlopiù disabitata. Ma non vi consiglierei comunque di uscire da soli di sera.” Fece una breve pausa. “O neanche di giorno, a dire il vero.”

    “Questa suit mi sta soffocando...” si lamentò Kim, che era rimasta in silenzio durante il recente scambio di frasi.

    “Resisti ancora per qualche minuto. Siamo quasi arrivati al confine. Una volta oltrepassato quello, potremo gettare le suit.” fu la risposta, sorprendentemente gentile, del “rapitore”.

    Ariel si avvicinò di qualche passo alla sorella. Non osò abbracciarla o toccarla per non far saltare la loro copertura da mercenari – e anche volendo, sarebbe stato difficile fare un gesto d'affetto con tutto quel metallo addosso – ma sperò di darle in qualche modo forza con la semplice vicinanza.

    “Ci siamo. Quello laggiù è il posto di blocco, e manca ancora un minuto alle due. Ricordate, siamo delle guardie fuori servizio. Se fanno delle domande, lasciate parlare me – a meno che non vi interpellino direttamente.”

    Ariel sentì lo stomaco congelarsi. Cercò di raddrizzare un pochino la sua camminata, per dare un'impressione più convincente: non si è mai vista una guardia fiacca, anche fuori servizio. Diede un'occhiata alla sua destra, e vide che anche Kim stava tentando di fare lo stesso – con risultati non particolarmente brillanti, ma passabili.
    Tornò a guardare davanti a sé, vedendo il posto di blocco stradale che si avvicinava gradualmente. Era comprensibilmente teso, e il pensiero di lasciar perdere tutto e consegnarsi gli sembrava ora l'idea migliore, ora una follia.

    “Alt!” intimò la guardia al posto di blocco, e tutti e tre si fermarono immediatamente. La guardia li osservò per alcuni lunghissimi istanti. “Non dovreste essere di servizio alla torre?”

    “Abbiamo staccato pochi minuti fa, ce ne stiamo tornando a casa.” fu la pronta risposta.

    Ci fu un attimo di pausa prima che il piantone rispondesse, e Ariel ebbe la netta sensazione che le cose stessero andando per il verso sbagliato. “...e vi state portando dietro le suit?” Il tono non sembrava scherzoso.

    Ariel sentì che le cose sarebbero andate male se non fosse intervenuto subito. Lo fece d'impulso, infrangendo l'unico consiglio che gli era stato dato. Fece un passo in avanti, dando un colpetto di tosse e dandosi una breve occhiata intorno, per assicurarsi che nessun altro stesse ascoltando.
    “Mi sembra inutile cercare di ingannarti...” disse con tono basso, quasi cospiratorio. “...non stiamo affatto tornando a casa.”

    Anche se gli dava le spalle, Ariel ebbe la netta impressione che i suoi due compagni si fossero congelati sul posto e lo stessero fissando con occhi sgranati.
    “La verità è che ci pagano una miseria, quindi abbiamo pensato di fare qualche lavoretto extra per arrotondare lo stipendio... e le suit ci farebbero molto comodo. So che non sarebbe propriamente regolare, ma...”

    “Lavoretti extra, eh?” La guardia sembrò scrutarli intensamente per un attimo. Quindi abbassò la guardia e diede una pacca sulla spalla ad Ariel. “Ma sì, vi capisco... sono nella stessa barca, con quello che spende mia moglie in vestiti, che le venga un colpo.” Si voltò e fece un passo all'interno della guardiola, premendo un pulsante che fece alzare la sbarra. “Passate pure. E non vi preoccupate, non farò la spia sulle suit.”

    Ariel si sentì levare un peso sulla coscienza. Ancora una volta rispose d'impulso, quasi senza volere. “Grazie mille. Giuro che quando torno ti offro da bere!”

    Tutti e tre si mossero per oltrepassare le sbarre, e furono raggiunti dalla voce della guardia, in risposta. “Ehi, ci conto! Mi trovi qui tutti i sabati!”.

    Ariel alzò un braccio come in cenno di saluto, continuando a camminare in avanti. Erano le 2.03, ed erano riusciti a superare il posto di blocco. Si sentiva raggiante, e fiero del fatto che ci fossero riusciti per merito suo. Avrebbe voluto saltellare e dire agli altri due “Visto? Visto?”, ma non era il caso, almeno per il momento.

    Passò qualche minuto, prima che l'altro parlasse di nuovo – ora lontano da orecchie indiscrete. “Per un attimo pensavo avessi intenzione di tradirmi.”

    “Per un attimo ci avevo pensato anch'io.” rispose Ariel. “Ma non credo che sarei riuscito a farlo. Ora... possiamo toglierci queste maledette tute?”

    “Ancora qualche decina di metri. In quel vicolo.” Indicò con il dito una strada poco distante, uno dei pochi vicoli in quella città – Kessel era stata programmata a tavolino, ed era quasi tutta composta da grandi strade parallele e perpendicolari; i vicoli erano una rarità, frutto di ripensamenti o costruzioni secondarie.

    Si infilarono in quel vicolo, dove non c'era assolutamente nulla salvo il retro di un ristorante. La porta era chiusa e non sembrava esserci attività di sorta – comprensibile, data l'ora. Ariel e Kim impiegarono qualche minuto a togliersi le suit, e quando le buttarono nella spazzatura videro che l'altro si era già tolto la sua. Il loro primo e unico istinto fu di voltarsi per vedere, finalmente, quale aspetto avesse l'uomo che li aveva fatti fuggire.
    Poterono vedere ben poco: aveva dei capelli neri, lisci e lunghi fino a metà schiena circa, e il suo volto era celato da una maschera metallica nera, simile a quella di un ninja, che gli copriva la bocca e il naso. Indossava vestiti di synthopelle nera: una maglia con sopra un trench che toccava quasi terra e dei pantaloni che celavano parzialmente degli stivali scuri. Portava inoltre dei guanti senza dita, anch'essi neri, e gli occhi erano nascosti da un paio di occhiali da sole a specchio. Da quel poco che si vedeva della sua pelle, era estremamente pallida, quasi bianca, tanto da far dubitare della sua salute fisica.
    Nella mano destra impugnava un bastone nero, scheggiato in numerosi punti e con delle decorazioni a forma di fiamme - piuttosto sbiadite a dire il vero - nella parte inferiore.

    Forse lo stavano guardando un po' troppo intensamente, tanto che lui inarcò un sopracciglio e li riprese. “Volete una foto? Forza, dobbiamo andare. Anche se vostro padre non può sigillare la Yellow, può mandare in giro tutte le pattuglie che vuole. Indossate queste.”
    Porse loro due mascherine scure, simili a quella che indossava lui ma di materiale evidentemente inferiore.

    “Non avevi nulla di meglio?” disse Ariel un po' titubante, infilandone una.

    “Avresti preferito farti vedere in faccia?” fu la risposta secca.

    “No, no, per carità...” Ariel sospirò. “Tra l'altro non ci hai ancora detto come dobbiamo chiamarti.”

    L'uomo esitò, osservandoli. Sembrò soppesare la risposta per qualche secondo, prima di parlare. “Garyo.”

    Ariel sgranò gli occhi, fissandolo e facendo istintivamente un passo indietro, allungando il braccio davanti alla sorella, come per proteggerla. “Kim, scappa!” furono le uniche parole che gli uscirono dalla bocca.

    “Ariel, sei un idiota.” disse la sorella, invece di scappare. Si voltò a guardarla, e lei sembrava assolutamente calma, come se non avesse appena sentito che l'uomo che li aveva presi era il ricercato numero uno di tutta Kessel, la cui taglia era pari ad almeno dieci volte lo stipendio annuo di un manager di alto rango.

    Ariel farfugliò qualcosa (nulla di senso compiuto), alternando lo sguardo fra l'uomo – che ora sembrava vagamente divertito – e la sorella. Non capiva come facesse a rimanere così calma, a non aver paura. Erano stati cresciuti nello spauracchio di questa figura di cui quasi tutti avevano solo sentito parlare; addirittura alcuni dubitavano della sua esistenza. Era quasi una leggenda metropolitana – ma sostenuta dal governo, e temuta da tutti. Tra i vari miti, si diceva che una volta avesse ucciso più di cento CoC (agenti d'élite della Fondazione) da solo, per poi catturare i pochi sopravvissuti e torturarli per il puro gusto di farlo, spedendo ai familiari le parti del corpo una per una nel corso di diversi mesi.

    Venne riscosso da questi pensieri quando Kim gli mollò un sonoro coppino. “Quest'uomo ci ha appena salvati. Non so quali siano le sue motivazioni, e non è neanche particolarmente simpatico, ma di sicuro non è quel mostro sanguinario che ci hanno sempre dipinto. Non ha ucciso le guardie che lo hanno sorpreso nel nostro appartamento, e ci ha lasciato la scelta se seguirlo o meno.”

    “Tua sorella è una ragazza intelligente, Ariel. Tu invece sei impulsivo, come tuo nonno.”

    “Che ne sai tu di mio nonno?!” sbottò Ariel, forse alzando la voce un po' troppo e confermando il giudizio di impulsività appena espresso.

    Garyo sospirò, voltandosi. “Ne parleremo più tardi. Abbiamo ancora parecchia strada da fare, e non saremo fuori pericolo finché non arriveremo a casa mia.”

    28 dicembre 2199, 5:21 A.M. – zona abbandonata, periferia della Red Zone

    Camminarono per diverse ore, facendo alcune soste per riposarsi in luoghi che Garyo riteneva sicuri. Evitarono le strade principali, per quanto possibile, e gradualmente videro la città trasformarsi intorno a loro: dall'opulenza e pulizia della Green Zone, cui erano abituati, pian piano videro posti sempre più degradati intorno a loro, nelle varie sfumature della Yellow Zone, fino a giungere a nord, nella Red Zone, in cui la sporcizia in strada era la norma, non si vedeva l'ombra di un poliziotto (una cosa positiva, nella loro situazione) e le strade sembravano completamente deserte – come una futuristica città fantasma.

    “Ma non doveva essere pieno di criminali questo posto?” chiese Ariel, un po' stupito.

    “È quello che la Fondazione fa credere ai cittadini. Hanno bisogno di un nemico su cui concentrare il proprio odio, così che non venga rivolto verso il loro padrone. Gli ultimi criminali della Red Zone sono stati sterminati decine di anni fa.”

    Dopo quello scambio non parlarono più molto in strada, in parte perché Ariel non riusciva ancora a fidarsi di quell'individuo, dopo aver sentito il suo nome, in parte perché egli stesso disse loro di risparmiare il fiato per camminare. Ariel però ebbe modo di verificare una delle sue intuizioni iniziali: Garyo zoppicava, anche se non in maniera eccessivamente marcata, appoggiandosi più sulla gamba sinistra; quando appoggiava la destra a terra, si aiutava con il bastone, il che gli dava un'andatura piuttosto caratteristica. Nonostante ciò, non camminava affatto lentamente.

    Dopo qualche altro chilometro, gli edifici (ma non la sporcizia) si fecero più radi: stavano entrando nella zona dei magazzini abbandonati, ancora più a nord della Red Zone. Ariel non aveva mai sentito parlare di quel posto prima che lo nominasse Garyo, e non sembrava particolarmente accogliente. Oltrepassarono molti magazzini che sembravano tutti uguali, prima di fermarsi a uno di essi.

    A vedersi dall'esterno, era un edificio molto alto e rovinato. I muri erano scrostati e la grande porta di ingresso arruginita. Entrarono attraverso una porticina più piccola, laterale, che Garyo aprì appoggiando le dita su uno schermo impolverato, in quello che era evidentemente un rudimentale (in confronto a quelli della Green) sistema di riconoscimento delle impronte digitali.

    Ariel e Kim entrarono, e di fronte a loro videro uno spettacolo piuttosto diverso da quello che ci si sarebbe potuti aspettare da fuori. L'interno di quel magazzino non corrispondeva affatto all'esterno e, anche se non sembrava particolarmente moderno per gli standard cui erano abituati loro due, era ben tenuto. La stanza di fronte a loro era forse definibile un soggiorno/cucina: in un unico ambiente si trovavano un divano con un tavolo basso di fronte, un tavolo più grande di syntholegno con sei sedie intorno, dei fornelli, un lavandino, un frigorifero e alcuni mobili – il tutto spalmato lungo una superficie esagerata qual era quella del magazzino. Qualche metro più in là si vedevano altre due porte che, a giudicare dalla distanza dei muri, davano in altre stanze parecchio più piccole di quest'unica grande sala.

    La porta si richiuse dietro di loro, seguita da un beep che indicava la chiusura di sicurezza.
    “Benvenuti a casa mia. Potete buttare quelle maschere, ora.” disse Garyo, superandoli e avviandosi al divano. Si tolse la maschera a sua volta, rivelando un volto dai tratti orientali, ma tenne gli occhiali.
    Una volta raggiunto il divano si sedette (o forse il termine più adatto sarebbe “si buttò”) e, appoggiando il bastone di fianco a sé, iniziò a passare la mano su e giù lungo la gamba destra, massaggiandola dal ginocchio in su.

    I due ragazzi posarono le maschere sul tavolo e rimasero in silenzio per qualche secondo, prima che Kim si facesse avanti, con un'espressione dolcemente preoccupata. “Fa male?”

    Garyo rispose senza neanche alzare lo sguardo. “No, giro con un bastone perché fa colpo sulle ragazze.”

    Kim abbassò lo sguardo, mortificata dalla risposta acida a quella che sembrava a tutti gli effetti sincera preoccupazione. Per Ariel, fu la goccia che fece traboccare il vaso, e fece qualche passo in avanti, indicando l'uomo seduto e parlando ad alta voce – ora che poteva permetterselo.
    “Oi, non pensi che sia il caso di finirla? Non ti permetto di trattarla così!” Gli arrivò davanti, talmente preso dalla sua invettiva da scordarsi di essere di fronte all'uomo da cui qualche ora prima voleva fuggire. “Siamo rimasti zitti finora per evitare di attirare l'attenzione, ma ora ci devi delle spiegazioni!”

    Garyo alzò lo sguardo, osservando Ariel per alcuni istanti, forse colpito dalla sua invettiva. Alla fine annuì, riabbassando la testa. “Sì, hai ragione, vi devo delle spiegazioni. E non era mia intenzione trattar male tua sorella... ma dopo tanto tempo, ho perso l'abitudine a interagire con altre persone. Non che sia mai stato il mio forte.”
    Sospirò, prima di rialzarsi. Non prese il bastone, e senza di esso si notava molto di più la sua andatura claudicante. Si avvicinò al frigorifero, aprendolo e tirandone fuori una bottiglia da due litri senza etichetta, piena di un liquido color marrone scuro, probabilmente whiskey. “Immagino che abbiate fame, o sete. O entrambe. Prendete pure quello che volete, anche se non c'è molta scelta.” Appoggiò la bottiglia sul tavolino, e tirò fuori un vassoio piuttosto grande di quello che sembrava essere sushi. Dopo averlo appoggiato di fianco alla bottiglia, si mise a sedere, osservando i due ragazzi.

    Esitarono per qualche istante, e il primo a muoversi per avvicinarsi al frigorifero fu Ariel. Era grande – in linea con le proporzioni del magazzino, per così dire – e traboccava di cibo e bevande. La varietà era piuttosto scarsa: tra le bevande c'erano solo alcune bottiglie d'acqua e molte di più uguali a quella presa da Garyo poco prima, mentre la sezione cibo era composta principalmente da vassoi di sushi, pizze da scaldare e confezioni di patate arrosto.
    “Dieta variegata, eh?” disse il ragazzo, prendendo uno dei vassoi e chiedendo conferma con un'occhiata alla sorella, che annuì. Il vassoio era l'equivalente di una porzione per sei o sette persone, e già dividerlo in due sembrava un'enormità. “Non penso che riusciremo a finirlo...”

    “Mangiate finché vi va e poi rimettetelo in frigo.” rispose Garyo, prima di riempire, versando dalla bottiglia, un bicchiere gigantesco da mezzo litro che Ariel non aveva notato prima. “Le porzioni sono su misura per me, quindi a voi una dovrebbe bastare per un giorno o due.”

    Kim non riuscì a trattenere una risata. “Eppure non dai l'impressione di mangiare tanto.” Si morse il labbro subito dopo aver parlato, ma questa volta non fu seppellita da una risposta caustica.

    “Diciamo che si tratta di una specie di malattia.”

    “...sei un mutante, vero?” disse Ariel, prendendo una bottiglia d'acqua e richiudendo il frigorifero. “Lo dicono quasi tutti giù in Green, anche se non so cosa voglia dire. A parte che hai strani poteri.”

    “Non è così semplice. Lasciatemi il tempo di mangiare e vi spiegherò ogni cosa.”

    Non ebbero bisogno di aspettare molto; nonostante il vassoio contenesse cibo per un reggimento, Garyo lo terminò tutto nel giro di una ventina di minuti, e simile sorte ebbe la bottiglia.

    “Non ti fa male così tanto alcool?” chiese Kim, inclinando leggermente la testa di lato.

    “Alcool?” Garyo la fissò per un po', come non capendo di cosa stesse parlando. Quindi si voltò verso la bottiglia finita da poco. “Oh, questo. È semplice the freddo. Non della migliore qualità, ma potrete immaginare che i negozi della Green non sono molto accessibili per me.”

    Kim annuì appena, comprimendo le labbra senza dire altro.

    “Bene, direi che avete il diritto di ricevere qualche spiegazione.” disse infine Garyo alzandosi, dopo qualche minuto di silenzio, zoppicando di nuovo verso il divano. “Fatemi pure tutte le domande che volete, e risponderò al meglio delle mie possibilità.”

    La domanda uscì dalle labbra di Ariel prima che lui se ne rendesse consciamente conto. “Cosa hai intenzione di fare di noi?”

    Garyo aggrottò la fronte. “Fare di voi? Io non ho intenzione di fare nulla. Siete persone libere. Se volete, potete anche tornare a casa. Non posso permettermi di accompagnarvi fino là, ma vi accompagnerei fino a un punto sicuro.”

    Ariel ebbe un brivido al solo pensiero.

    “Se non hai intenzione di tenerci qui, perché ci hai rapiti?” disse Kim pochi istanti dopo, fissando l'uomo.

    “Rapiti non mi sembra il termine appropriato. Vi ho offerto di seguirmi, e voi lo avete fatto di vostra spontanea volontà.”

    “Vallo a spiegare alla Fondazione. Ho detto 'rapiti' per semplicità di termini.”

    “Le risposte a tono sono un dono di famiglia a quanto pare.” Garyo accennò un sorriso. “Come vi avevo accennato all'inizio, l'ho fatto per mantenere una promessa a un vecchio amico.” Abbassò leggermente lo sguardo. “Gli avevo promesso che mi sarei occupato di voi se gli fosse successo qualcosa, e ho trascurato i miei doveri fin troppo a lungo. Vi ho portati qui perché non avete idea di cosa sia realmente la Fondazione, di cosa implichi. Da un certo punto di vista è un bene che vostro padre vi abbia tenuti segregati come ha fatto... se vi avesse permesso di vivere come tutti gli altri a quest'ora sareste probabilmente dei Greener indottrinati e inquadrati.”

    “Le tue spiegazioni mi stanno solo facendo più confusione. Chi è questo tuo amico, e che cosa gli è successo?” disse Kim, e Ariel annuì subito dopo per unirsi all'opinione della sorella.

    “Tutto a suo tempo. Non si può cominciare una storia da metà e pretendere di esporla chiaramente. Dovrò partire dall'inizio: dal 2043, l'anno in cui arrivai a Kessel.”

    Ariel aggrottò la fronte. “Ci prendi in giro? Siamo quasi nel 2200.” Osservandolo in volto, Ariel si rese conto che l'uomo non sembrava affatto avere l'aria di scherzare.

    “Vorresti dire che hai più di 150 anni?” interruppe Kim, fissandolo con espressione incredula.

    “184, per la precisione. Come ha detto prima tuo fratello, sono un mutante... e questo ha dei lati positivi, e dei lati negativi.” Si fermò, guardando prima Ariel e poi la sorella. “La mia storia è piuttosto lunga, e si sta facendo tardi. O presto, a seconda dei punti di vista. Siete sicuri di non voler riposare prima?”

    “Sì,” risposero i due, all'unisono.
    “Non penso che riuscirei a dormire neanche se ci provassi, ora,” continuò Ariel.

    “Molto bene allora. Non vi parlerò della mia vita prima di Kessel, vi basti sapere che sono riuscito a procurarmi un posto sull'Arca e ad assicurarmi la salvezza nel 'nuovo mondo', come dicevano. Voi non avete avuto modo di sperimentarlo direttamente perché siete nati qui, ma l'arrivo a Kessel fu un'esperienza un po' traumatica per me come per tutti gli altri...”

    25 marzo 2043, 8:47 P.M. - Parker Street, cubicolo 221B

    Ero sdraiato sul letto – se così si poteva chiamare quella specie di brandina carceraria infilata tra l'armadio e il muro – e stavo riflettendo. È difficile dire esattamente a cosa stessi pensando, è passato tanto tempo, ma stavo cercando di dare un senso a tutto quello che avevo visto e appreso quel giorno. La quasi-estinzione dell'umanità, il guasto alle Arche, un governo di cui dovevo ancora comprendere il funzionamento.
    La politica non era mai stata tra i miei interessi, ma saperne qualcosa era fondamentale per la sopravvivenza. Tutto quello che avevo capito sfogliando pagine da un terminale pubblico era che la popolazione era divisa in tre strati: alive, dissidenti e cittadini. Gli alive erano le persone appena uscite dalle criobare, i “nuovi arrivi” di Kessel; i cittadini erano coloro che si sottomettevano all'autorità della Fondazione, mentre i dissidenti la rifiutavano. All'atto pratico, la cittadinanza consisteva in un chip impiantato sottopelle – quello stesso chip che al giorno d'oggi è obbligatorio per tutti.

    Dopo almeno un'oretta passata a fissare il soffitto senza guardarlo, mi resi conto di avere fame. Al risveglio mi avevano dato un po' di soldi – sembravano più delle carte da gioco di plastica, in verità, ma sopra invece di semi e figure si trovavano solo un numero e un simbolo che rappresentava i chip, la valuta tuttora in uso a Kessel. Avevo carte per un totale di 500§, ma non avevo idea di quanto valessero effettivamente – probabilmente non molto, dato che me li avevano regalati.
    Un ottimo modo per unire l'utile al dilettevole sarebbe stato farsi un giro per la città e cercare un ristorante: avrei mangiato e mi sarei reso conto del valore relativo dei soldi. Ed è proprio quello che feci.

    Anche se i ricordi dei giorni prima del congelamento erano freschissimi nella mia mente, come se quel sonno artificiale fosse durato una sola notte invece di molti anni, avevo la netta e giustificata sensazione di non mangiare da secoli, e mi mancava molto il cibo giapponese – quindi la logica tappa fu il quartiere orientale, che ironicamente si trovava nella parte ovest della città. Andai a piedi, nonostante la distanza, nella speranza di ambientarmi un po'.
    Come avevo scoperto quel pomeriggio, mi trovavo nella Red Zone. Al tempo non era disabitata come oggi, ma brulicante di persone di ogni tipo, principalmente di bassa estrazione. Nelle strade, specialmente quelle secondarie, non era affatto raro vedere prostitute, spacciatori o rivenditori di armi illegali. Ero piuttosto disgustato da quella vista, quindi potete immaginare la mia sorpresa quando, varcando il confine con il quartiere orientale, mi trovai in un ambiente pulito e molto somigliante alla parte “bene” di Kessel che avevo avuto modo di vedere.
    Certo, ben guardando si potevano scorgere i segni delle stesse attività illegali, ma erano condotte in maniera più nascosta e regolamentata: edifici dalle luminose insegne in cui ragazze ben vestite e apparentemente ben educate offrivano i propri servizi, negozi dall'aspetto attraente e pulito in cui si vendevano armi e droghe – solamente quelle lecite erano esposte, ma non avevo dubbi che con le giuste parole si sarebbe potuto acquistare merce più “interessante”.

    Devo ammettere che fui leggermente shockato da questo cambio repentino, tanto che vagai senza meta per qualche minuto prima di ricordarmi dello scopo per cui ero venuto in quel posto. Mi riscossi e mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa di adatto, e dopo aver superato diverse bancarelle di cibo, l'occhio mi cadde su un locale dall'insegna in caratteri giapponesi – una rarità in tempi di affermazione della lingua global. Si chiamava 酔っ払い喫茶店 (Yopparai Kissaten), che potrebbe essere molto rozzamente tradotto come “bar ubriacatura”.
    Per quanto il nome non promettesse bene – non per un astemio, perlomeno – l'interno sembrava tranquillo, confortevole e molto somigliante ai locali che ricordavo in Giappone. Non avevo nulla da perdere, quindi decisi di varcare la soglia.

    La luce della sala principale era soffusa, una semi-oscurità che rendeva l'atmosfera del posto ancora più penetrante. Il centro della sala era occupato da un grande bancone circolare, senza sgabelli né clienti in piedi attorno. Lungo le pareti, alcuni coperti da paraventi e altri più esposti, si trovavano una serie di bassi tavoli davanti a cui sedevano i clienti. Nonostante fosse molto affollato, non c'erano ubriachi molesti o persone rumorose, il che mi fece molto piacere.

    Mentre mi stavo ancora guardando intorno, sentii una voce provenire dalla mia sinistra.
    “Irasshaimase!”
    Mi voltai a quel benvenuto, trovandomi davanti una giovane cameriera vestita con un kimono bianco e una hakama nera, che mi rivolse un inchino. Ricambiai il gesto, anche se in maniera molto più leggera, e la ragazza mi rivolse di nuovo la parola.

    “Posso accompagnarla a un tavolo?”

    Le rivolsi un breve cenno di assenso, e la seguii verso uno dei pochi tavoli liberi all'interno della sala. Mi sedetti a gambe incrociate, con le spalle rivolte verso il muro.

    “Cosa posso portarle?”

    Rimasi a riflettere per un istante, ma non ce n'era realmente bisogno: sapevo già cosa volevo.

    “Del the verde e un misto di sushi, per favore.”

    “Arriveranno subito.” La ragazza mi rivolse un altro inchino, e poi si allontanò.

    Non passò effettivamente molto prima che mi portassero quanto avevo ordinato. La prima cosa che mi colpì fu il sapore vagamente plasticoso del tutto. Come avrei scoperto più tardi, quello era cibo di alta qualità – specialmente per la Red Zone – ma i miei ricordi ancora legati a quello non sintetico del vecchio mondo non gradirono molto. Avevo abbastanza fame da non potermi permettere di fare lo schizzinoso, e a quel sapore mi sarei abituato molto in fretta.
    Finii di mangiare in fretta, e sorseggiando il the tornai a riflettere sulla vita a Kessel, quel posto così nuovo ed estraneo. A un certo punto, ebbi la sensazione di aver notato un movimento vicino con la coda dell'occhio.

    Mi voltai, e vidi una ragazza che veniva verso di me. Non era la cameriera di prima, e dall'abbigliamento non sembrava una dipendente del locale: portava delle scarpe da ginnastica nere, una maglietta dello stesso colore e dei jeans. Era visibilmente orientale, non molto alta e dai capelli corti, a caschetto; non avrà avuto più di diciotto anni. Notai anche che alla mano destra portava un guanto di pelle senza dita, con quattro piccoli fori all'altezza delle nocche e uno più grande sul dorso.
    Si avvicinò e mi rivolse un breve inchino. “Konbanwa.”
    Quando rialzò lo sguardo, risaltò un particolare che da distante era difficilmente notabile: aveva un occhio marrone e l'altro verde elettrico, un colore piuttosto innaturale.

    “Konbanwa.” risposi con un breve cenno del capo, dopo il quale rimasi a osservarla (forse in maniera un po' troppo diretta e maleducata), in attesa di sapere il motivo del suo avvicinamento.

    “Le dispiace se mi siedo al suo tavolo?” chiese lei con tono gentile.

    La richiesta mi stupì un po', e probabilmente la sorpresa si rifletté sul mio volto, poiché lei accennò un sorriso poco dopo. Dopo un attimo di esitazione, annuii. “Prego.”

    La ragazza fece un cenno di ringraziamento con il capo e si sedette, a gambe incrociate, dalla parte opposta alla mia. “Fuyume Mido.” si presentò, porgendomi la mano destra.

    “Garyo.” risposi io, in maniera un po' brusca com'era mio solito. Ignorai completamente la sua mano protesa verso di me.

    Lei sembrò lì per lì sorpresa dal mio atteggiamento, ma lo celò rapidamente con un sorriso, riportandosi la mano in grembo. “Spero di non infastidire. Vedo che lei è arrivato da poco a Kessel, e mi chiedevo se potessi aiutarla.”
    La osservai attentamente, con occhi critici. “Immagino mi abbiano tradito i vestiti. Sono uscito oggi dall'Arca. Non ho idea se lei possa aiutarmi o meno. Non so neanche se ho bisogno di aiuto o no.”

    Mido sorrise nuovamente. “Un po' di confusione è normale all'inizio. Non voglio disturbarla oltre, ma se ne avesse necessità si senta libero di chiamarmi.” Mi porse un biglietto da visita di cartone. Era di buona qualità e riportava solamente il suo nome e numero telefonico.
    Tornando a guardarla, la vidi alzarsi e rivolgermi un altro breve inchino. “Spero di rivederla in giro per il quartiere.”

    Avevo appena incontrato il braccio destro della yakuza di Little Tokyo.

    12 aprile 2043, 1:28 P.M. - Fuji Street, sala privata dello Yopparai Kissaten

    Non so bene quali motivi mi avessero spinto a prendere una decisione del genere. Sicuramente uno dei fattori principali fu il mio rifiuto della cittadinanza e la mia mancanza di talenti particolari. Poi probabilmente la frequentazione di ex-connazionali. Ma c'era stato sicuramente un altro fattore che mi aveva indotto ad accettare l'offerta di Mido.
    Al tempo non l'avrei mai ammesso, ma col senno di poi mi resi conto che quel fattore era lei.

    Comunque fosse andata, ormai mi trovavo lì.
    Non avevo più i vestiti da profugo che venivano assegnati automaticamente a tutti i nuovi arrivati, ero riuscito a comprarmi qualcosa. Nulla di eccezionale, non ho mai avuto molta fantasia per i vestiti.

    Ero seduto sulle ginocchia, e intorno a me altre persone erano sedute allo stesso modo, a formare un cerchio. Rimasi per la maggior parte del tempo con lo sguardo basso – non mi erano mai piaciute le riunioni – ma ogni tanto la curiosità mi spinse a guardarmi intorno e a cercare di capire chi fossero gli altri. Membri della yakuza, ovviamente, ma qual era il loro ruolo?
    Immediatamente alla mia sinistra si trovava Mido che, come tutti gli altri, indossava un kimono tradizionale. Ero l'unico vestito diversamente. Non che la cosa mi importasse particolarmente.
    Non saprei dire chi ci fosse alla mia destra, perché guardarlo senza farsi notare sarebbe stata un'impresa impossibile. Molti volti erano in ombra a causa della luce soffusa, ma intorno a me potevo vedere, tra gli altri, una ragazza che non avrà avuto più di trent'anni, un uomo più anziano dal volto pieno di cicatrici e uno più giovane dalla testa rasata e il portamento fiero. Al centro, direttamente di fronte a me all'altro capo della piccola stanzetta, con la ragazza alla sua sinistra e l'uomo pelato alla sua destra, sedeva un giovane dai capelli rosso fuoco, lunghi fino a metà schiena. Contrariamente agli altri, indossava un completo elegante, non saprei dire se nero o blu scuro, con sotto una camicia bianca e una cravatta nera.

    “Siamo al completo, quindi possiamo iniziare.” disse quest'ultimo. “Come ben saprete, questa sera accoglieremo tra noi un nuovo membro, in via provvisoria. Prima di entrare a far parte dei nostri ranghi definitivamente, dovrà sostenere un periodo di prova.”

    Dopo aver parlato così, rimase in silenzio, e l'uomo dalla testa rasata si alzò in piedi. “Mido Fuyume, alzati in piedi.”

    Percepii con la coda dell'occhio che Mido, di fianco a me, stava facendo quanto le era stato detto; al momento, tuttavia, la mia attenzione era concentrata sull'uomo.

    “Sei disposta a garantire personalmente per quest'uomo, di modo che la responsabilità di suoi eventuali atti impropri ricada su di te?”

    “Sì.” rispose lei, chinando appena la testa.

    “E sei disposta a guidarlo nei suoi primi passi, per ridurre e correggere i suoi errori finché non diventerà un membro a pieno titolo?”

    “Sì.”

    “Allora possiamo procedere con la cerimonia.” L'uomo si rimise a sedere, e altrettanto fece Mido.
    Ad alzarsi ora fu la ragazza che avevo notato prima. Ciò che non avevo notato è che teneva in mano un vassoio e, avvicinandosi a me, me lo porse. Sopra di esso si trovava una tazza di un liquido trasparente, che emanava un odore di alcool a me disgustoso.

    “Per suggellare la promessa di alleanza, berremo sake dalla stessa coppa.” disse il ragazzo dai capelli rossi.

    Mi era già stato preannunciato da Mido che bere alcool faceva parte della cerimonia, ma ciò non lo rendeva un compito più piacevole. Però ciò che andava fatto, andava fatto. Allungai entrambe le mani per afferrare la tazza e, portandola alle labbra, ne bevvi un sorso. Fu un sorso talmente piccolo che a malapena sentii il sapore della bevanda, e non ebbe effetti indesiderati sulla mia gola. Posai di nuovo la tazza sul vassoio, e la ragazza si voltò e si avvicinò all'altro, porgendogliela con lo stesso gesto.

    Egli prese la tazzina con due mani e la portò alle labbra. Non si poteva distinguere bene a causa della distanza e della semi-oscurità, ma con tutta probabilità ne bevve l'intero contenuto. Posò nuovamente la tazzina sul vassoio, e la ragazza tornò al proprio posto.
    “Ora sei ufficialmente un kobun della Inuike Ichizoku. Il tuo nome in codice sarà Akuma. A nome di tutti, ti do il benvenuto nella famiglia.”

    Come mi era stato detto di fare, mi inchinai. Rimasi così per qualche secondo, prima di sollevare la schiena e rimettermi eretto.

    “La cerimonia è terminata. Ognuno di voi è libero di tornare ai propri compiti. Akuma, entrerai in servizio effettivo da domani. Oggi Mido sarà così gentile da farti una breve introduzione riguardo i tuoi doveri e guidarti nel nostro territorio.”
    Detto questo, il ragazzo si alzò, seguito dagli altri.

    L'ultima ad alzarsi fu Mido, che mi porse la mano per aiutarmi, sorridendo. “Non è andata poi così male, mh? Dammi il tempo di cambiarmi e ti porto a fare un giro per i posti più importanti.”

    12 aprile 2043, 2:16 P.M. - Fuji Street

    Mido ci aveva messo poco a cambiarsi: uscì vestita di una camicia bianca con sopra una cravatta nera, pantaloni scuri e scarpe da ginnastica. Pochi minuti dopo eravamo fuori dal locale, e stavamo camminando per Fuji Street, l'arteria principale del quartiere.

    “Come membro in prova non dovrai fare molto. Logicamente non ti saranno affidate informazioni di alcun tipo, oltre quelle strettamente necessarie per il tuo lavoro – cioè praticamente nessuna, dato che il tuo lavoro per i primi tempi consisterà di svolgere delle ronde per il quartiere.” disse.

    “Da solo?”

    “Questo dipende da te. Molti scelgono di fare le ronde a coppie, in parte forse perché è più sicuro, ma principalmente per tenersi compagnia. È raro che ci siano disordini qui.”

    “Mmh.”

    Rimase in silenzio per qualche istante, per poi piegare la testa a guardarmi, con un sorriso curioso. “Spero che un giorno inizierai a comporre frasi con più di cinque parole alla volta.” ridacchiò. “Hai qualche dubbio? C'è qualcosa che non ti torna?”

    Riflettei per alcuni istanti prima di parlare, senza voltarmi verso di lei ma continuando a guardarmi davanti. “Siete tutti così giovani nella famiglia?”

    Lei aggrottò la fronte, guardandomi con espressione interrogativa. “Che intendi?”

    “Tu hai detto di essere una delle tre cariche più alte, e non avrai più di sedici anni.”

    “Diciassette, prego.” mi interruppe lei, con tono divertito.

    “Ok, diciassette. Se la mia conoscenza delle cerimonie non si è arruginita nella bara criogenica, quello che ha bevuto dalla mia stessa tazza di sake è l'oyabun, il capo, e non gli darei più di ventitré anni.”

    “Ne ha venticinque.”

    “Non ha molta importanza. Il punto è che lì dentro ci dovrebbero essere state, a logica, tutte le persone importanti della famiglia, e solo uno mi sembrava avere più di quarant'anni. Mi sembra un po' strano.”

    “Ah, parli di Nobuo. Lui ha quarantadue anni. Comunque non è così strano, se ci pensi. La maggior parte delle persone che hanno avuto accesso alle Arche e si sono salvate sono giovani. Gli anziani, a meno che non fossero in posizioni di potere o molto ricchi, non potevano permettersi un posto.”

    “Come spiegazione è solo parzialmente valida. Mi sembra comunque strano che tu a diciassette anni occupi un grado così alto, così come mi sembra strano che Akai occupi il suo a venticinque.”

    Mido sorrise. “Akai ha il suo posto perché è stato uno dei primi a svegliarsi ed è stato quello che ha organizzato tutti gli altri per formare la Inuike. Io occupo il mio posto perché Akai mi conosceva già dal vecchio mondo, e conosce le mie abilità.”

    “Che sarebbero?” chiesi io, come al solito un po' troppo diretto.

    Invece di offendersi, lei sorrise e mise il petto in fuori. “Sono laureata in medicina e ho già una certa esperienza sul campo.”

    “A diciassette anni?”

    “A diciassette anni.” rispose. “In cambio non ho mai avuto una grande vita sociale, ma... beh, non importa.”

    “Mmh.”

    “E ora che c'è?” chiese lei, ma non sembrava affatto seccata.

    “Nulla. Complimenti.”

    “Grazie. Ma per quanto tu giochi a fare il misterioso, si vede chiaramente che c'è qualcosa che ti infastidisce.”

    La cosa mi stupì un po'. Ero convinto di avere un ottimo autocontrollo e di riuscire a trattenere benissimo le mie emozioni, ma evidentemente mi sbagliavo.

    “Beh?” insisté lei, avvicinandosi un po' di più mentre camminavamo e fissandomi.

    “Mpf.” Mi seccava che qualcuno intuisse quello che stavo pensando e mi interrogasse al proposito, ma ormai non avevo molta scelta. “Diciamo solo che non mi sembri affatto il tipo da yakuza.”

    Lei ridacchiò, tornando alla distanza di prima con un saltello. “Se è per questo, neanche tu. Quindi direi che siamo pari!”

    Nonostante tutto, la frase e la sua esuberanza mi strapparono un sorriso, una cosa che accadeva molto raramente.




    CAPITOLO 3


    30 maggio 2043, 3:54 A.M. - Little Tokyo


    I miei primi mesi all'interno della Inuike Ichizoku passarono senza eventi degni di nota. Il mio tempo “lavorativo” era diviso fra ordinari giri di ronda e occasionali riunioni in cui, essendo l'ultima ruota del carro, non mi veniva mai detto nulla di importante o interessante. Tutto sommato non mi potevo lamentare: la paga era più che sufficiente a coprire le mie poche necessità, e le attività in cui mi era stato richiesto di impegnarmi fino a quel momento sembravano volte più al mantenimento della pace che al profitto senza scrupoli – una cosa rara per un'organizzazione a delinquere.

    Quella sera era stata più movimentata del solito, grazie all'allarme di una gioielleria in piena notte. Arrivammo sul posto in cinque: io, Mido, due kobun che non conoscevo e l'uomo pelato che avevo visto alla cerimonia di iniziazione, che avevo scoperto chiamarsi Ichi Tanaka, in codice Ryuichi.

    “Rimanete dietro di me, e aspettate il mio segnale prima di fare qualunque cosa.” disse mentre ci avvicinavamo, togliendo la sicura al fucile d'assalto che portava a tracolla.

    Non ero dell'umore per disobbedire, tanto più che era da molto tempo che non avevo occasione di usare un'arma da fuoco fuori dal poligono di tiro. Non potevo ancora permettermi armi personali, e la famiglia mi aveva gentilmente concesso una pistola e, per occasioni speciali come questa, un fucile di precisione di un modello piuttosto vecchio.

    Quando arrivammo nei pressi della gioielleria, fu evidente che il sistema di allarme aveva funzionato alla perfezione: gli aspiranti ladri erano rimasti bloccati all'interno, tutte le uscite sigillate dal sistema di sicurezza automatico. Il problema stava ora nel farli uscire in maniera controllata.

    “Akuma, tu appostati qui.” disse Ryuichi con un cenno del capo verso di me. “Gli altri mi seguano. Mido, rimani indietro.”

    Mi fermai dove mi era stato detto, seguendo con lo sguardo il gruppetto che si avvicinava alla gioielleria. Imbracciai il fucile di precisione pochi secondi dopo, iniziando a guardare la scena attraverso l'ottica. Non erano molto distanti, ma abbastanza perché non potessi sentire quello che dicevano – tranne quando il com-link era attivo.
    Vidi Ryuichi avvicinarsi a un lato dell'ingresso principale, aprire un pannello con una chiave e digitare qualcosa sul tastierino numerico che era apparso. Pochi istanti dopo, la barriera che ostruiva la porta principale si sollevò.
    Ryuichi aprì la porta, facendo palesemente attenzione a non esporsi, e urlò con aria autoritaria qualcosa che non riuscii a sentire. Non accadde nulla, e pochi secondi dopo lo vidi nuovamente urlare allo stesso modo e prendere un oggetto dalla cintura, lanciandolo dentro il locale.
    Del fumo iniziò a fuoriuscire, e i ladri stanati non tardarono a imitarlo. Sentii chiaramente il rumore di un mitragliatore, vidi i miei compagni allontanarsi dall'ingresso per cercare copertura e tre figure uscire dalla cortina di fumo per rifugiarsi dal lato opposto.
    Una di loro tentò la fuga, ma cadde in terra alcuni metri più in là, colpita da un proiettile.

    Era ovvio che non mi avevano notato, e questo era un immenso vantaggio. Eppure non ero sicuro che sparargli immediatamente sarebbe stata la cosa giusta. Una loro resa era decisamente improbabile, ma qualcosa mi diceva di aspettare.
    Assistetti agli scambi di convenevoli per qualche minuto, finché un altro di loro non venne colpito. Puntai l'ottica del mirino sull'unico rimasto in piedi: lo vidi prendere un pacchetto dalle mani del compagno a terra e iniziare a correre. Diversi proiettili lo sfiorarono, senza colpirlo.
    Aspettai fino all'ultimo istante, ma nulla sembrava fermare la sua corsa. Lo vidi guardarsi intorno e rallentare per un brevissimo istante. Fu quando stava per imboccare un vicolo laterale e sparire per sempre che premetti il grilletto. L'uomo sembrò incespicare e cadde malamente, portandosi una mano alla gamba.

    “Perché ci hai messo così tanto?” sentii la voce di Ryuichi, leggermente metalizzata, dal ricevitore del com-link.

    “Avevi detto di aspettare il tuo segnale prima di fare qualunque cosa.” risposi in maniera automatica, forse con un po' troppa ironia.

    30 maggio 2043, 6:41 A.M. - Fuji Street

    Impiegammo alcune ore per mettere tutto a posto e assicurarci che non mancasse nulla. Due dei tre rapinatori erano sopravvissuti, ma non sapevo dove li avesse portati Ryuichi. Lui e i due kobun si erano allontanati, e io stavo per fare lo stesso quando sentii la voce di Mido dietro di me e i suoi passi.

    “Oi, aspetta!” Mi si affiancò, con le mani dietro la schiena. “Già che ci sei, potresti accompagnarmi a casa, no?”

    L'idea non mi attirava particolarmente. C'era qualcosa in lei che non riuscivo ad afferrare, una strana sensazione che non riuscivo a piazzare.
    Evidentemente lei prese il mio silenzio come un assenso, e camminammo senza parlare per diversi minuti – o diverse ore, dato che il tempo in questi casi tende a sembrare particolarmente lungo.

    “Sei sempre così loquace o è un onore riservato solo a me?” mi chiese di punto in bianco, mentre i miei pensieri erano completamente altrove.

    “Mh?” Mi voltai a osservarla. “Oh. No, immagino di essere sempre così.”

    Ridacchiò. “Non hai fatto molto per ingraziarti Ichi questa sera.”

    Rimasi a riflettere per un istante. “No... immagino di no.”

    “Non ti piace, eh? Come mai?”

    Scrollai le spalle e mi diedi un'occhiata intorno senza un reale motivo, forse solo per distogliere l'attenzione da lei. “È troppo autoritario, tradizionalista e formale.”

    “Io non la vedrei in maniera così esagerata... sa anche essere dolce e gentile.”

    Mi voltai a osservarla, sfoderando il mio miglior tono sarcastico. “Immagino.”

    La mia frase ebbe tuttavia effetto diverso da quello programmato: vidi Mido arrossire e abbassare subito la testa, guardando il pavimento dritto di fronte a sé mentre camminava. “N-non è come pensi.”

    “Cosa pensi che pensi?”

    “Eh?”

    “Lascia stare.”

    Rimase in silenzio per un po', prima di approfondire la sua spiegazione. “Ichi è un po' come un padre per me. È vero che è molto severo, ma non è una persona cattiva.”

    Non risposi, e il discorso cadde. Rimanemmo ancora una volta senza parlare per diverso tempo. A pensarci bene, non so neanche dove stessimo andando; lei mi aveva chiesto di accompagnarla a casa, ma stava seguendo me – e io stavo semplicemente passeggiando nella speranza prima o poi di vincere l'insonnia.

    “Senti...” esordì a un certo punto. “...tu hai una ragazza?”

    Fui discretamente preso alla sprovvista dalla domanda, e rimasi a fissare Mido per qualche istante prima di risponderle. “No.”

    Lei diede un colpetto di tosse, annuendo appena. Lasciò passare qualche secondo prima di parlare di nuovo. “E... c'è qualcuna che... beh, ti piace?” Alzò appena la testa per osservarmi.

    Considerai la cosa per qualche istante. Ero abbastanza inetto per quanto riguarda le relazioni sociali da non rendermi conto appieno della piega che la conversazione stava prendendo. “A dire il vero... sì.”

    La mia risposta sembrò avere su di lei un effetto simile a un pugno allo stomaco; tornò a guardare in basso, e parve rannicchiarsi su sé stessa facendosi piccola piccola. “Ah...”

    Cadde un silenzio talmente pesante che sembrò solidificarsi in una patina sferica di imbarazzo in un raggio di dieci metri intorno a noi. Continuammo a camminare così per almeno un quarto d'ora, prima che lei si fermasse. Mi resi conto solo allora che, senza farci caso, ero stato io a seguire lei – e non il contrario.

    “Ecco, io sono arrivata...” disse, ancora con lo sguardo basso e il tono non propriamente rilassato.

    “Uhm... bene.”
    Io aspettavo una mossa da lei, un saluto o anche solo che entrasse in casa. Lei sembrava fare lo stesso, e restammo lì a evitarci reciprocamente lo sguardo, finché non mi sentii in dovere di dire qualcosa. “Senti, riguardo a prima...”

    “No, no, non c'è bisogno che ti giustifichi!” mi interruppe lei, gesticolando anche con le mani come per fermarmi.

    “...no, volevo solo dire che...”

    “Ti dico che va bene così, non mi devi render conto di nulla!”

    “Mido, mi lasci...”

    “Ti va di salire?” disse di colpo, fissandomi. Sembrava che le parole le fossero uscite involontariamente, poiché si irrigidì sul posto senza muovere più un muscolo – in maniera non dissimile dagli opossum, quando si fingono morti.

    Immagino che a vedersi da fuori sia stata una scena piuttosto divertente. Ma spero anche che non ci fossero spettatori, quella sera. “Uhm...” fu tutto quello che dissi, lì per lì.

    “Voglio dire, a... a bere qualcosa, o... non so...” Devo ammettere che non capii le sue ultime parole, più simili a un bisbiglio farfugliato che a un vero e proprio linguaggio intelligibile.

    Io stesso non fui da meno. Mi ci volle qualche secondo per elaborare le sue parole e annuire brevemente col capo, e un po' di tempo ancora prima che mi ricordai che in genere tra umani usa comunicare verbalmente. “...beh... ok... se non è...”

    “Oh no, figurati, nessun disturbo.” rispose lei parlando in fretta, ancor prima che avessi finito la frase. La vidi deglutire e distogliere lo sguardo; impiegò qualche secondo a rendersi conto che eravamo ancora in strada, e a decidere di aprire il portone del condominio.

    Contro tutte le aspettative, finii per addormentarmi sul divano mentre lei era in cucina a preparare il the.




    Se siete arrivati fin qui, complimenti. Come già detto sopra, purtroppo il tutto termina qui, con il terzo capitolo iniziato ma non terminato.
    Chiunque voglia (anche se dubito ci sia qualcuno) è libero di commentare.
  5. .
    CITAZIONE (.::Jewel::. @ 20/3/2012, 16:30) 
    Quello che non comprendo è: ok a te dan fastidio queste persone che "imitano". A me danno fastidio delle ragazze coatte e arroganti che ho visto oggi, ma mica perchè loro sono romane devo odiare tutti i romani O.o

    Non ha senso dover difendere una razza e scartarne un altra.
    Ok allora: viva l'italia e le gnocche come l'Arcuri che ha le tette invece delle minorate giapponesi.

    Cioè è un discorso senza senso..

    NB: scusate per i toni acidi e scontrosi ma quando ce vò ce vò..

    Avoja invece, i romani sò tutti delle merde coatte e burine!

    No, sto a scherzà eh, non mi venite a picchiare. XD Anche perché abito a Roma, quindi ho l'immunità territoriale. ù.ù

    Comunque sì, fondamentalmente non ha senso difendere una razza piuttosto che un'altra. Già il termine razza in sé non ha molto senso, dato che la nostra razza è umana, punto - come gira voce avesse scritto Einstein sul documento di emigrazione (non so quanto sia fondata come voce).

    Comunque come nota conclusiva, penso sia molto appropriata una citazione di George Bernard Shaw.

    Patriotism is, fundamentally, a conviction that a particular country is the best in the world because you were born in it…

    Che, per i meno anglofoni, significa: "Il patriottismo è, fondamentalmente, la convinzione che un particolare paese sia il migliore del mondo perché ci sei nato."
  6. .
    CITAZIONE (*Adler* @ 20/3/2012, 16:02) 
    quoto sul fatto che sia incantabile. A meno che tu sia un tenore stecchi le note 99 volte su 100.
    Tuttavia ripeto che SECONDO ME bisogna ascoltarlo tante e tante e tante volte per apprezzarlo. Alla fine ce la fai :). E comunque anche in occidente abbiamo inni bruttini. A parte quello italiano che detesto per varie ragioni (oltre che musicalmente poroponziponzipo), anche quello attuale austriaco (la mia nazione putativa) lo trovo dannatamente deludente. Lento e povero nei testi. Benché a comporlo fosse stato un certo signor Mozart.
    Nella mia hit parade degli inni nazionali per il momento svetta quello dell'URSS a parimerito con quello della DDR. Paesi che non esistono più :lol: Per lo meno la Russia ha mantenuto la melodia.
    Chiuso l'excursus OT

    L'ho ascoltato parecchie volte, e in parte penso di essere giunto ad apprezzarlo un po'. Ma comunque lo ritengo molto più brutto di buona parte degli inni occidentali.

    Quello italiano a me piace. È una delle poche cose che mi piace dell'Italia, l'inno. XD
    Il mio preferito in assoluto è probabilmente quello francese, e a seguire quello americano (una delle poche cose che non mi dispiace dell'America). Quello inglese anche se molto criticato mi piace, ma fondamentalmente può essere che sia perché tendo ad amare quasi tutto ciò che è inglese. A seguire quello tedesco, e gli altri li conosco molto meno e non ho un giudizio al riguardo.
  7. .
    Non ho guardato suoi video (a parte un breve spezzone del primo in alto, il più recente), ma ho letto la descrizione a lato nel profilo e il pezzo citato da Vagabond nell'ultimo post.

    Boh, sinceramente un po' mi viene da ridere. Questo canale mi sembra un po' come i nazisti dell'Illinois (per chi ha visto il primo film dei Blues Brothers).

    CITAZIONE
    Io li odio i nazisti dell'Illinois.

    I bigotti ci sono ovunque, e questo mi pare un esempio di prima categoria. Basta guardare come generalizzi tutto, come faccia appello all'essere fieri della propria razza quale fondamento di ogni cosa e come usi ripetutamente termini tanto forti quanto vuoti di significato.
    Un esempio su tutti è la fantastica frase "racist, selfish and ignorant westerners". Chiunque pronunci questa frase si dà automaticamente la zappa sui piedi dimostrando di essere egli stesso razzista (verso gli occidentali), egoista (pensa solo a sé stesso tanto quanto gli occidentali come sono da lui descritti) e ignorante (bisogna esserlo per non rendersi conto di stare dicendo cose prive di senso, almeno a mio avviso).

    Bah.
  8. .
    A me non dispiacevano i primi Street Fighter (nello specifico io ho giocato molto al classicissimo 2 e all'un po' meno classico EX Plus Alpha), ma il 4 (che ho per XBox, anche se ahimé ormai la console è rotta) non mi ha preso molto. Ci ho giocato giusto un po' con un mio amico a cui piaceva più che a me, ma finita lì.

    Ma quello della prima immagine non è il 4, vero? Me lo ricordo diverso di grafica... anche se è vero che è tanto non ci gioco. E inoltre non conosco affatto il personaggio di destra. XD

    *si nasconde per non mostrare la sua ignoranza in campo Capcom*
  9. .
    Non condivido la posizione di chi dice che il Giappone dovrebbe cambiare inno o bandiera perché ricordano brutti eventi. Tali eventi sono accaduti e sicuramente ne rimangono gli strascichi finora, ma cambiare una bandiera e quattro note non serve né a cancellarli né a giustificarli né tantomeno a condonarli. Serve solo a pulire la facciata e spazzare la polvere sotto il tappeto - almeno finché a cambiare non sarà la politica del Giappone nei confronti di questi eventi e un loro più ampio riconoscimento.

    Ciò detto, penso che il Giappone l'inno dovrebbe cambiarlo. Ma non per motivi ideologici o per un presunto rispetto verso altre nazioni... semplicemente perché lo trovo abbastanza orripilante. Per carità, sarà tradizionale e tutto, ma mentre gli inni occidentali (o perlomeno quelli che conosco io) sono cantabili e alcuni anche belli, quello giapponese si fa quasi fatica a cantarlo - a prescindere dal testo, che invece non trovo poi così ermetico o spiacevole.

    Per la faccenda dell'inno nelle scuole, il fatto che si faccia pagare una multa o addirittura si arrivi a influenzare la carriera perché ci si è rifiutati di cantare l'inno nazionale o di alzarsi in piedi è una vergogna. Cantarlo o meno dev'essere una libera scelta.
    E penso che non valga neanche il discorso che è comprensibile e/o giustificato perché si applica a lavori pubblici. Giustificazioni di questo tipo possono sembrare accettabili e sensate superficialmente, ma è fin troppo facile che si finisca per abusarne e sfruttarle per giustificare comportamenti ben peggiori di una multa per il rifiuto di cantare l'inno.

    P.S. Non vorrei sbagliarmi, ma mi pare che lo 日の丸 (Hi no maru) non sia la cerimonia dell'alzabandiera ma la bandiera giapponese stessa (il significato letterale infatti è "cerchio del sole", ossia il cerchio rosso su campo bianco che è la bandiera giapponese).
  10. .
    QUOTE (YukiIce89 @ 10/3/2012, 16:02) 
    Una domanda sorge spontanea però: i genitori non si sono accorti di niente? Viveva forse da sola in un appartamento?
    Se si fossero accorti subito, l'avrebbero fatta ricoverare e denunciato subito i suoi aguzzini.

    A quanto pare il primo giorno i... "cosi" le avevano fatto telefonare ai genitori per dir loro che era scappata di casa ma che era con un amico e stava bene. Evidentemente i genitori ci hanno creduto.

    Comunque non ho parole. Non scrivo nulla perché l'unico commento possibile è "..." ._.


    QUOTE (Dani (Honda Kiku) @ 10/3/2012, 16:01) 
    Secondo me qualche cosa è stata aggiunta dai giornalisti o da quelli che hanno "propagato la notizia", insomma una persona normale credo che sarebbe già morta i primi giorni li riportati, voi che ne pensate?, pensate anche voi che in tutto ciò ci sia del falso?

    Scusate se mi sono posto questi quesiti, ma essendo leggermente incredulo mi sono venuti sempre più dubbi sull'affidabilità di tali fonti..... spero che non pensiate che io sia insensibile o altro, anzi, sono sconvoltissimo anche io, ed è proprio per questo che spero che non sia tutto vero ciò scritto in questo post D:

    Può essere che siano stati aggiunti dettagli per meglio vendere la storia. La lista delle violenze giorno per giorno è qualcosa che ho trovato solamente su Facebook, quindi potrebbe anche essere, se non inventata di sana pianta, comunque esagerata o "ricamata".
    In ogni caso, non mi sento di sottovalutare la capacità umana per la stupidità e la crudeltà, quindi potrebbe anche essere tutto vero.

    Il punto è che, sia che sia tutto vero, sia che sia stata "solamente" imprigionata, stuprata e torturata (in maniera meno disgustosa di come traspare dalla cronaca giorno per giorno), è una cosa disumana. O meglio, umana.

    Edited by [GFL] Damon 89 - 10/3/2012, 16:38
  11. .
    Neanch'io pensavo fosse così stressante la vita dell'imperatore!

    Però c'è da dire che l'articolo è un po' ingannevole quando parla di 8 imperatrici femmine nel periodo prima del Meiji (1868), quando sono state ufficialmente vietate. Infatti ci sono sì state 8 imperatrici femmine, ma 6 di queste furono tutte "concentrate" nel periodo Nara (710-784), e le altre due furono una nel 1629 e una nel 1762.
    Giusto per dire che i giapponesi misogini lo sono sempre stati, non è una novità introdotta dalla costituzione filo-americana. XD
    Incidentalmente, penso che uno dei motivi per cui dopo il periodo Nara ci sono state solo altre due imperatrici è che l'imperatrice Koken (749, l'ultima del periodo Nara e la terzultima in totale) combinò un bel casino governativo con la sua politica filo-buddhista e i favoritismi a un monaco della religione suddetta.
  12. .
    Per me il Giappone è quell'arcipelago che sta a est di Cina, Corea e Russia.

    ...

    ...no, scherzo.

    Per me il Giappone è una società complessa (come tutte d'altronde) e di difficile comprensione. Quando penso al Giappone mi viene in mente la contraddizione fra tradizione e modernismo, che è poi anche la contraddizione fra la cultura nativa e l'occidentalizzazione.
    Mi viene in mente (con una certa acquolina in bocca tra l'altro) la loro cucina, le loro abitudini e usanze così incredibilmente diverse dalle nostre - anche e forse soprattutto nelle piccole cose, come una discussione (non nel senso di litigata) sorta ieri con mia madre sulla presunta maleducazione di portarsi il piatto vicino alla bocca per finire una zuppa o simili (che a me è venuto di fare istintivamente per finire i passatelli XD), che in Giappone è invece una cosa normalissima (basti pensare a tutte le volte che negli anime si vede gente mangiare il ramen tenendo la ciotola in mano e finirlo poi direttamente bevendo da essa).

    Ma la cosa principale che mi viene in mente quando penso al Giappone è la lingua. La lingua influenza il modo di pensare e di agire molto più di quanto si possa pensare - alcuni sostengono anzi che senza una lingua non si possa pensare se non cose estremamente semplici, e che quindi la lingua "imbriglia" i nostri pensieri in modo sottile e spesso impercettibile.
    E la lingua giapponese è completamente diversa dalla nostra in tantissimi aspetti. Farò solo un piccolo e innocente esempio, che ovviamente non arriva neanche a "grattare la superficie" (viva l'inglese XD) della cosa: una semplice frase come "invidio la tua macchina". Per noi è un'azione che parte da noi e ha come oggetto la macchina... per il giapponese invece è il contrario, perché nella frase 車がうらやましい la macchina è il soggetto, ed è un aggettivo a esprimere l'idea "mi fa provare invidia"... quindi il "far provare invidia" per il giapponese è una qualità inerente dell'oggetto, e non un'azione.
    Come dicevo sopra, è solo un piccolo e innocente esempio che preso da solo non dice nulla, ma tantissime differenze di questo tipo, piccole e grandi, costellano la lingua giapponese quando confrontata con la nostra, dando origine già a livello linguistico a differenti modi di pensare.

    Quando però penso al Giappone con l'ottica della vita di tutti i giorni, vedo un'immagine molto diversa.
    Vedo una società improntata al successo e al lavoro, dove riuscire a entrare in un'università prestigiosa è quasi una garanzia di successo mentre il non riuscirci è quasi un'onta; dove il lavoro e le responsabilità coincidono spesso interamente con la vita e anche la reputazione, al punto che una delle principali cause di suicidio è la disoccupazione, vista come vergogna.
    Vedo una società che per fuggire da tale realtà come descritta sopra ha creato ogni sorta di evasioni, più o meno "innocenti" - al punto che diversi occidentali vedono il Giappone come la culla delle perversioni.
    Vedo una società che tende a nascondere molto sotto una patina di formalità e gentilezza.

    Vedo una società che, alla fine, sfugge a qualunque "riassunto" e non si può descrivere in due parole... probabilmente anzi non basterebbe un libro per descriverla adeguatamente.
    Quello che ho scritto finora quindi purtroppo non può rispondere completamente alla domanda, dal momento che ho menzionato solamente alcuni aspetti - forse anche marginali - ma che sono stati i primi a saltarmi all'occhio.

    P.S. Rileggendo mi sono accorto che potrebbe non apparire molto chiaro se sto elogiando il Giappone, criticandolo o altro - quindi mi è sembrato opportuno aggiungere una piccola spiegazione.
    A me la cultura giapponese fondamentalmente attira (d'altronde la studio, insieme alla lingua), ma ci sono parecchi aspetti di essa che non capisco, che mi lasciano perplesso o che addirittura mi spaventano - come penso sia normale, dato che la "cultura perfetta" o il "popolo perfetto" non esistono, e che soprattutto cosa piace o no è sempre molto soggettivo.
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    La storia mi incuriosisce molto... penso che proverò a procurarmelo in lingua originale, così unisco l'utile al dilettevole. *.*

    Grazie per la precisissima recensione!
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    Wilkommen!

    Qui troverai diverse cose corrispondenti ai tuoi interessi, credo. A parte lo sport - mi sa che avevano provato ad inserirlo tempo fa, ma era faticoso far praticare sport online, quindi alla fine ci si è dovuti limitare alla sezione del forum. =P
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    Benvenuta!

    Il "vizio" di mettere i punti a fine frase è una delle cose migliori che ti sarebbe potuta capitare, dai retta a me. Come si diceva sopra, la lingua italiana sta scomparendo per lasciare spazio al "cmq prl bn io!!!!!". ù.ù
51 replies since 20/6/2010
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